mercoledì 22 dicembre 2010

Hereafter di Clint Eastwood

Sebbene abbia ancora un aspetto attraente e vigoroso, Eastwood ha superato gli ottanta anni e anagraficamente inizia a chiedersi “cosa succede dopo la morte?”; sarà per questo che quando – tramite Steven Spielberg, produttore della pellicola – gli hanno proposto di dirigere “Hereafter” (“aldilà”, in italiano) ha accettato senza riserve. Scritto da Peter Morgan (“The Queen”, “Frost/Nixon”), il film racconta la storia di tre persone utilizzando altrettanti indipendenti binari narrativi riprendendo lo stile caro a Guillermo Arriaga (sceneggiatore della Trilogia Amores perros/21 grammi/Babel di Inarritu, ndr). Marie Lelay (Cécile de France) a Parigi è una nota giornalista francese che si è salvata per miracolo durante un tragico maremoto alle Hawaii; George Lonegan (Matt Damon) a San Francisco è un medium renitente in possesso di poteri soprannaturali; Marcus a Londra perde il suo fratellino gemello in un drammatico incidente. Vite e città distanti, condizioni socio-culturali profondamente differenti, stati d'animo contrastanti ma comunque uniti a doppio filo dalla ricerca di quel qualcosa che c'è oltre il mondo terreno: l'aldilà, vero o presunto che sia. Un tema profondo e serio, certamente difficile da maneggiare; anche se di nome fai Clint e conservi in bacheca due Oscar. Il regista americano indaga sui tormenti comuni ed esplora con tatto le credenze in materia, spingendo sull'acceleratore delle emozioni come ci ha abituati, ma in questa prova manca più di qualcosa. Innanzitutto la rappresentazione parallela, che poco si addice alla macchina da presa dell'ex Ispettore Callaghan: la coreografica sequenza iniziale dello tsunami, le lezioni culinarie di George sullo sfondo di un ristorante italiano, l'attentato nella metropolitana, sono effimeri e roboanti bagliori in una rappresentazione piuttosto incolore. E l'idea, senza dubbio apprezzabile, di inserire stralci di attualità (non solo le tragedie naturali o gli atti terroristici, ma anche il product-placement integrato o l'uso massiccio di Google) alla lunga sfiancano lo spettatore. Ognuno dei protagonisti medita e patisce un trauma interiore, vive da inquieto e disadattato la propria condizione, desidera ritrovare la propria anima o “sente” quelle altrui, però dall'altra parte dello schermo arrivano briciole di energia e bisogna accontentarsi dei fantasmi dickensiani o delle visioni paranormali del medium George. Curioso, inoltre, che Eastwood si mostri assai critico attaccando frontalmente la categoria di coloro che “parlano con i morti” catalogandoli come (giusto che sia) imbroglioni, e poi arrivi a santificare il suo protagonista sensitivo solo perché decide di smettere di lucrare con questa dote. Va detto, però, che lo sguardo del regista sa essere anche pragmatico, infatti in “Hereafter” non c'è una destinazione precisa o un prevedibile Paradiso su cui approdare, non c'è una comoda strada cattolica da seguire; anzi, il veloce e stereotipato funerale del ragazzino a Londra sembra quasi prendere le distanze con ironia dalla morale cristiana. Dell'ultimo Eastwood apprezziamo l'onesta e l'ambiziosa intenzione di riflettere con umiltà su un argomento tanto indefinibile quanto sacro e inviolabile. Progetto riuscito o tentativo mancato? Per chi scrive, come probabilmente si evince, la seconda. Ciò nonostante, alcuni potrebbero apprezzare questo viaggio contemplativo e gradire la vena malinconica del vecchio Clint; con il quale condividiamo il pensiero circa l'impossibilità di stabilire l'esistenza di un'oltretomba e per cui al di qua della terra ci auguriamo di gioire per lunghi anni ammirando le sue pellicole.

Voto: 6

mercoledì 15 dicembre 2010

L'esplosivo piano di Bazil di Jean-Pierre Jeunet

Proprio in queste settimane si sta discutendo - in scrupoloso silenzio - una norma che consentirà al Governo italiano di modificare la legge 195/90 sul commercio di armamenti con la finalità di rilanciare l'esportazione nel mondo, calpestando ovviamente restrizioni, controlli e confini di carattere morale. Con tempismo perfetto arriva nei cinema più fortunati il sesto lungometraggio del pirotecnico Jean-Pierre Jeunet, autore reso celebre da "Il favoloso mondo di Amélie" che nel 2001 spiazzò pubblico e critica con la sua storia eccentrica e incantata. Scritto con il fedelissimo Guillaume Laurant, "L'esplosivo piano di Bazil" nasce da un soggetto altrettanto bizzarro, dalla genesi destrutturata: lo spunto è una storia di Tom Thumb (un orfano che lotta contro un mostro) fusa con il concetto di vendetta e sviluppata appunto nel tema etico riguardante il traffico d'armi. Bazil (Dany Boon, che ha raccolto il testimone dopo un rifiuto last minute di Jamel Debbouze) ha perso il padre in Marocco per colpa di una mina anti-uomo e anni dopo viene colpito a sua volta da una pallottola vagante durante il turno di notte in un videonoleggio. Si salva ma finisce per strada senza lavoro né una famiglia; un giorno incontra Slummer (Jean-Pierre Marielle), un vagabondo uscito da poco di galera che lo invita nella casa-caverna con i muri di metallo (eccellente lavoro della scenografa Aline Bonetto) condivisa con altri sei balzani rigattieri dai nomi evocativi: Mama Chow (Yolande Moreau), Elastic Girl (Julie Ferrier), Remington (Omar SY), Buster (Dominique Pinon), Tiny Pete (Michel Cremades) e Calculator (Marie-Julie Baup). Con il loro aiuto, Bazil cercherà rivalsa mirando i rispettivi amministratori delegati (interpretati da André Dussollier e Nicolas Marie) delle due diverse aziende produttrici di armi che hanno costruito la mina e il proiettile cause di sofferenza. Si può girare una commedia spensierata muovendo al contempo una feroce critica alla società industriale e alla classe politica? È possibile giocando con i soldatini riuscire a smuovere le coscienze degli uomini? A guardare Jeunet, non sembra impossibile: il francese rovescia la scatola dei giochi sul pavimento delle periferie parigine e combina i pezzi uscendo dalla realtà per raggiungere una dimensione cartoonesca, caratterizzata da personaggi che sembrano usciti da un libro per ragazzi e da una serie di invenzioni fantastiche (come le sculture automatizzate prese in prestito dall'artista Gilbert Peyre). Uno spettacolo scatenato, durante il quale si viene travolti dall'energia e dall'entusiasmo del regista che mostra tutta la sua abilità con le tecniche di ripresa, dispensa incursioni animate visionarie, farcisce il racconto con gustose reminiscenze fanciullesche (il modo di mangiare il "formaggino" del protagonista), lo adorna con stratagemmi figli dei nostri tempi (l'auto-product placement o l'utilizzo come espediente narrativo di YouTube), omaggia Carné, Leone, Chaplin, Bogart, Mission Impossible. Praticamente, un film nel film. Uno sguardo ironico e caustico, irriverente e provocatorio, ma anche disordinato e chiassoso, attento al focus della vicenda e a descrivere gli intrecci tra manager, trafficanti d'armi e politica (di Sarkozy...) dietro un velo fatto di gag a mascherare con sarcasmo (la sequenza dei gamberoni è da infiocchettare) le responsabilità, l'ipocrisia e i vezzi del potere. I meriti dell'efficacia di un lavoro che si muove stando in bilico sul filo dell'eccesso vanno anche ricercati in una sceneggiatura per lunghi tratti sbalorditiva e nel cast perfettamente amalgamato ed armonioso laddove, forse, è proprio Boon a mostrare qualche crepa; non perché non sia brillante o adatto al ruolo, ma perché sembra dedicarsi più all'imitazione di "Charlot" e Tati piuttosto che inventarsi il suo Bazil. Qualche vizio naturalmente c'è, come un calo di creatività nella parte centrale o quella scena – stridente - pregnante di retorica che mostra le foto dei bambini mutiliati dalle bombe; ma sono delle minuzie perché "L'esplosivo piano di Bazil " è una dichiarazione d'amore al cinema e ai cinefili, un irresistibile godimento per occhi e orecchie, una delle più deliziose buffonate mai concepite e, visto il periodo natalizio, un piccolo regalo da scartare nelle sale sotto il grande schermo.

Voto: 7,5

giovedì 2 dicembre 2010

In un mondo migliore di Susanne Bier

Dici Scandinavia e la immagini immersa nel verde, con migliaia di km di piste ciclabili e una popolazione serena che vive armoniosamente in un contesto lontano da ogni forma di prepotenza. Probabilmente è anche così, ma la regista danese Susanne Bier con "In un mondo migliore" ci mostra l'altra faccia della medaglia: quella più violenta e incivile, attraverso gli occhi di due ragazzini e dei loro genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen) dopo aver perso sua madre per un cancro si trasferisce con suo padre in Danimarca dove incrocia sui banchi di scuola il coetaneo Elias (Markus Ryagaard), vittima di bullismo e isolato dal resto della classe. Sono due persone molto diverse ma con problemi simili: il primo è pieno di rancore, incattivito con il mondo e capace (decisamente troppo per la sua età...) di pianificare con ratio le proprie azioni; il secondo è timoroso, debole e soffre psicologicamente per via dei continui soprusi subiti. I "colpevoli" sono Claus (Ulrich Thomsen) reo a detta del figlio di aver desiderato la morte di sua moglie e la coppia scoppiata di genitori formata da Marianne (Trine Dyrholm) e Anton (Mikael Persbrandt), che lavora come medico per una missione umanitaria in un campo rifugiati africano. La prima parte della pellicola è efficace nel tessere con originalità le personalità dei protagonisti, il quadro sociale e le ragioni scatenanti dell'aggressività dilagante, costruendo bene la tensione e non trascurando neanche qualche virtuosismo come gli zoom improvvisi sui visi dei giovani e il montaggio alternato al ritorno delle famiglie da scuola dopo l'attacco selvaggio ai danni di un teppistello. Come la Danimarca della Bier, anche il film ha due volti: prende il sopravvento Anton - il vero protagonista nelle intenzioni della regista - e la narrazione di sdoppia su più livelli, quello che continua a seguire i progetti dei ragazzi e un altro che si concentra sulla vita dell'uomo focalizzandosi sulla sua etica impeccabile, celebrata in un esasperato rifacimento moderno della parabola "porgi l'altra guancia" e in un improbabile coupe de theatre in territorio africano. A penalizzare ulteriormente il promettente inizio si registra un crollo del clima teso e dell'atmosfera fosca che avevano incorniciato ammirevolmente le vicende dei personaggi; caduta che si acuisce nell'ultimo quarto d'ora durante il quale si cambia registro virando inaspettatamente su tinte più calde e accomodanti simili a quelle dei lieto fine della più convenzionale fiction. Peccato davvero, sarebbe stato bello uscire dalla sala con un profondo senso di inquietudine.

Voto: 5,5

martedì 30 novembre 2010

Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni di Woody Allen

Leggendo sulla locandina la frase “Incontrerai l'uomo dei tuoi sogni” inevitabilmente si creano delle associazioni di tipo sentimentale e ci viene un bel dubbio che quel geniaccio pessimista di Woody Allen abbia voluto con la sua ultima fatica celebrare romanticamente l'amore. Come facilmente intuibile per gli alleniani più affezionati, le intenzioni del regista newyorkese sono sensibilmente diverse: consapevolizzare gli individui e riflettere sul ruolo centrale che le illusioni hanno nei processi decisionali e comportamentali nella vita delle persone. Infatti, il titolo prende spunto beffardamente da una di quelle frasi standard pronunciate con fare mellifluo da cartomanti e sedicenti sensitivi che affollano – sfortunamtamente – le nostre città. Proprio una di queste “maghe” (Cristal, interpretata da Pauline Collins) viene coinvolta per disperazione dalla depressa Helena (Gemma Jones) fresca di abbandono per volontà di suo marito Alfie (Anthony Hopkins), anziano ringalluzzito e intenzionato – tra jogging intenso e trattamenti di bellezza – a riposizionarsi socialmente cercando emozioni più intense. Contemporaneamente seguiamo le vicende coniugali della loro figlia Sally (Naomi Watts) e di suo marito Roy (Josh Brolin), un inquieto e irritabile scrittore in crisi, alle prese con il velleitario tentativo di pubblicazione del suo nuovo libro. A chiusura della trama e del cast stellare, si aggiungono il gallerista-datore di lavoro della donna (Greg, impersonato da Antonio Banderas), una misteriosa e affascinante vicina di casa di nome Dia (Freida Pinto) e la nuova provocante partner di Alfie dal nome profetico: Charmaine (Lucy Punch), un'oca dal passato (?) equivoco. Dopo lo scoppiettante “Basta che funzioni” era preventivabile che il ritorno in Europa con la quarta trasferta londinese del regista non ci avrebbe consegnato un film altrettanto riuscito. L'impianto è quello collaudato: voce fuori campo a immergere lo spettatore nel vivo della narrazione e a coinvolgerlo emotivamente negli eventi, personaggi ben delineati, dialoghi pragmatici e clima disfattista sullo sfondo. La sensazione, però, è che manchino la lucidità e lo sguardo icastico grazie ai quali solitamente un film di Allen può decollare; qui non non si prende il volo, anzi, con il passare dei minuti la storia perde di brillantezza rivelandosi troppo ordinaria, abusata e talvolta stucchevole (per via dei tanti: “Cristal ha detto...” pronunciati da una Helena completamente succube della fattucchiera). Malgrado ciò, grazie a degli attori straordinari, la commedia è capace di sorprendere in qualche occasione e contiene delle sequenze efficaci, oltre a una qualità delle battute controllata e garantita dal marchio di fabbrica. Attendendo fiduciosi l'uscita del nuovo Allen intitolato “Midnight in Paris” (con la chiacchieratissima partecipazione di Carla Bruni, ndr), tutto sommato un discreto lavoro grazie al quale non avremo incontrato il regista dei nostri sogni, ma un'artista con ancora qualche freccia nel proprio arco certamente sì.

Voto: 6,5

venerdì 26 novembre 2010

We Want Sex di Nigel Cole

Del problema riguardante la condizione delle donne - storicamente penalizzate nella struttura sociale - è rimasta soltanto qualche eco nella società industriale moderna: difficoltà a ritagliarsi ruoli di direzione aziendale e pressione psicologica subita da parte di alcuni malintenzionati che offrono lavoro in cambio di favori sessuali, sono le questioni sul tavolo dell'attualità. Ciò nonostante, i produttori Elizabeth Karlsen e Stephen Wooley hanno deciso di realizzare "We Want Sex", da un episodio di cronaca inglese del 1968: nella fabbrica-città Ford di Dagenham (55mila dipendenti, quasi tutti uomini) lavorano alla cucitura dei sedili anche 187 coraggiose signore che a un certo punto decidono di ribellarsi perché stanche di portare il fardello della discriminazione sessuale. Per il progetto è stato ingaggiato il regista Nigel Cole e formato un cast di tutto rispetto che annovera Sally Hawkins (attrice feticcio di Mike Leigh con il quale ha girato anche "La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky") nel ruolo della protagonista Rita O'Grady, Bob Hoskins (memorabili le sue interpretazioni in "Mona Lisa" e "Il viaggio di Felicia"), Miranda Richardson ("Il danno", "Il mistero di Sleepy Hollow", "Spider") e Rosamund Pike ("Orgoglio e pregiudizio" e in uscita a Gennaio con "La versione di Barney"). La storia, seppur di grande importanza storica per il riconoscimento dei diritti e la successiva legge ad hoc sulla parità di retribuzione, non ha grande presa in quanto appunto anacronistica e appartenente a un'epoca che percepiamo distante secoli da quello che tutti i giorni incontriamo negli uffici e nelle strade del mondo civilizzato. È altresì vero che il cinema attinge spesso dal passato; quindi, probabilmente è il modo in cui viene raccontata la vicenda a renderla melensa. Rita emerge dal suo alloggio popolare di provincia e viene designata leader a capo della protesta (spalleggiata dai sindacati) che mette in seria difficoltà i dirigenti Ford, costretti a negoziare per la prima volta degli accordi al femminile. La situazione però si inasprisce, si ferma la produzione e iniziano a fioccare i licenziamenti per i colleghi uomini (avvenimento – sciaguratamente poco approfondito nella pellicola); questo provoca tensioni domestiche tra mariti e mogli e rappresenta una nuova minaccia al desiderio di uguaglianza delle operaie. Il film sembra virare verso territori più consoni alla realtà delle cose e per qualche minuto – quando entrano in gioco gli interessi economici nazionali – si ha l'illusione che si possa scacciare il prevedibile e dolciastro happy end, ma grazie all'intervento dell'energico Ministro del Lavoro Barbara Castle questo non accade. Non riescono né lo humour inglese (si ride poco, a dire il vero) né la bravura degli attori a tenere in piedi una narrazione che scivola più volte nel corso delle sue quasi due ore di durata: le gratuite e didascaliche sequenze a rimarcare lo slogan “We want respect” che riguardano il maestro autore di maltrattamenti con la bacchetta nei confronti dei suoi giovani alunni e l'amicizia con la colta moglie di un boss Ford trattata da quest'ultimo alla stregua di una colf, la goffa scena del pignoramento del frigorifero alla prima rata non pagata, il pretestuoso suicidio del marito di una operaia (era proprio necessario?) costituiscono una serie di indizi che rappresentano la prova di non riuscita. Insomma, we want better movies.

Voto: 5

venerdì 22 ottobre 2010

Figli delle stelle di Lucio Pellegrini

Un giovane portuale di Marghera (Fabio Volo), un professore di educazione fisica che si arrangia facendo il pizzaiolo (Pierfrancesco Favino) e un uomo appena uscito di galera (Paolo Sassanelli) tentano di rapire in segno di riscatto sociale un infido Ministro della Repubblica, ma essendo dei sequestratori incapaci portano via per errore un onesto sottosegretario (Giorgio Tirabassi); invischiati nella storia si ritroveranno anche un ricercatore universitario reazionario (Giuseppe Battiston) e una giornalista TV (Claudia Pandolfi). Sono questi i personaggi che tengono insieme il quarto lungometraggio (realizzato con il sostegno della Regione autonoma della Valle D'Aosta e girato tra Roma e Cervinia, ndr) del quarantacinquenne Lucio Pellegrini; una commedia che tenta la strada ambiziosa di voler divertire facendo riflettere su temi delicati come la precarietà nel mondo del lavoro. Una storia strampalata e un po' furbetta che intende aprire un discorso complesso che abbraccia appunto la disoccupazione, la politica accentratrice lontana dalle reali esigenze della gente e quest'ultima che accetta senza batter ciglio la situazione socialmente irreversibile nella quale versa. L'intenzione è nobile, ma l'approccio è di un semplicistico disarmante: l'abulica e pretestuosa citazione chomskyiana de “La fabbrica del consenso” (un sistema di propaganda con il quale viene manipolata l'opinione pubblica, ndr) racchiude la pochezza nell'analisi del film: una ricca farcitura di concetti in superficie e un'essenza assai povera. Certo, il regista è il primo a dichiarare: “Non faccio film a tesi e non voglio dare messaggi di nessun genere”. Però se una pellicola ha come motore l'attualità e gli argomenti trattati sono funzionali allo sviluppo dei personaggi e della narrazione, ci si aspetterebbe un approfondimento superiore e non ci si può esimere dal confronto con la rappresentazione della realtà. Qualche gag simpatica qua e là non basta a mettere sul binario giusto un lavoro con non pochi difetti, non ultimo un cast poliedrico certamente ma altrettanto privo di mordente dove emerge carismatico il solo Favino. Da ricordare alcune canzoni della colonna sonora come l'indimenticata hit di Alan Sorrenti che al film presta il titolo e “Le ragazze di Osaka” di Eugenio Finardi; per il resto, rimarrà molto poco nel cuore e nella mente dello spettatore all'uscita di “Figli delle stelle”.

Voto: 4
http://filmup.leonardo.it/figlidellestelle.htm

giovedì 14 ottobre 2010

Gorbaciof di Stefano Incerti

Chi è meridionale lo sa bene: affibbiare gli pseudonimi è sport nazionale. Quando poi vivi in una città folcloristica come Napoli e ti ritrovi un’appariscente voglia appiccicata proprio sulla fronte, puoi stare certo che il tuo nome si trasformerà in “Gorbaciof” (evidentemente, un adattamento dialettale del cognome del celebre leader dell’Unione Sovietica). Il protagonista del sesto lungometraggio del regista napoletano Stefano Incerti è il contabile del carcere di Poggioreale, all’anagrafe Marino Pacileo (Toni Servillo), un uomo taciturno, disonesto, viscido e - a modo suo - sensibile. Durante il lavoro è solito rubare qualche soldo dalla cassaforte da utilizzare a un variopinto e losco tavolo da gioco allestito nel retro di un ristorante cinese, di cui fanno regolarmente parte tra gli altri un noto avvocato e il proprietario dello stesso esercizio orientale, padre della bella Lila (Mi Yang), per la quale Pacileo nutre un forte interesse sentimentale. L’aspirante suocero s’indebita con il poker e, per evitare conseguenze ancor più disgraziate, Gorbaciof intensifica i prelievi fuorilegge alla cassa del carcere e tampona con il contante la piaga sociale della famiglia cinese. Anche per lui, però, le carte non girano e si ritrova invischiato in traffici di tangenti e rapine. Come spesso accade a Servillo nelle interpretazioni per Paolo Sorrentino, il personaggio principale del film gli viene cucito addosso; la macchina da presa lo tallona silenziosa in stile documentaristico e ne traccia un ritratto in cui emergono le smorfie e l’andamento smargiasso, tipici di chi è abituato a vivere per strada. Rispetto a “Le conseguenze dell'amore” o “Il Divo”, dove l'ottimo Toni poteva brillare grazie anche a una sceneggiatura appassionante, in “Gorbaciof” ha giocato da solista trainando una storia incolore e un cast – a cominciare dalla protagonista femminile – abbastanza piatto. Tuttavia, Incerti è ammirevole nel suo tentativo (riuscito) di raccontare gli eventi in forma originale risparmiando i dialoghi e privilegiando le immagini, segnate efficacemente dalle musiche originali di Teho Teardo (Il Divo) e montate dal solido Marco Spoletini (Gomorra). Con un finale graffiante avrebbe potuto rivelarsi anche una pellicola da raccomandare agli amanti del cinema acqua e sapone, ma sfortunatamente l'epilogo grottesco lo ridimensiona e lascia allo spettatore un retrogusto amaro, coerente con l'atmosfera del film ma meno con i favori del pubblico.

Voto: 5,5

mercoledì 6 ottobre 2010

L'illusionista di Sylvain Chomet

In un’epoca tridimensionale come quella che cinematograficamente stiamo vivendo, dove la Pixar anno dopo anno macina vorticosamente innovazioni e l’industria di settore sforna pellicole 3D con sempre più frequenza, c’è qualcuno che va controcorrente: è il caso del francese Sylvain Chomet (nomination all’Oscar con “Appuntamento a Belleville”) che ha adattato, disegnato e diretto “L’illusionista”, da una sceneggiatura originale di Jacques Tati, scritta a fine anni 50 e recuperata a distanza di mezzo secolo negli archivi del Centre National de la Cinématographie. Per comprendere meglio questa pellicola d’animazione, bisogna entrare nel microcosmo di Tati: accenniamo alla sua figura cercando di non apparire eccessivamente semplicistici. Jacques Tati (1908-1982), mimo e attore di cabaret negli anni 30, è stato un regista d’indubbia grandezza e spiccata originalità nel panorama internazionale sul versante della commedia satirica; il suo umorismo sobrio e sottilissimo, pretesto dissacrante con cui tratteggiava le caratteristiche dell’uomo, ne fa un acuto e inimitabile osservatore della società moderna. “L’illusionista” dunque riprende la medesima poetica e introduce un tassello più malinconico e intimo: sembra che la storia fosse stata accantonata perché troppo vicina alle vicende personali di Tati, quasi un soggetto autobiografico. Non a caso il testo affronta principalmente due argomenti: la fine dell’epoca del music hall a scapito del vigoroso rock’n’roll e soprattutto il tema universale del rapporto tra padre e figlia (quello del regista con la sua Sophie Tatischeff?). Un attempato illusionista – ormai fuori moda – vaga tra una città e un’altra alla ricerca di un pubblico che resti stupefatto alla vista dei suoi trucchi. Non va troppo bene, ma un giorno, durante un’esibizione in un pub sulla costa scozzese, incontra una giovane ingenua e incantata di nome Alice che è disposta a credere alle sue “magie” e segue l’uomo che la guiderà delicatamente e amorevolmente all’età adulta. Il racconto, ambientato a Parigi e in prevalenza Edimburgo, sembra fuori dal tempo; a cominciare dalla pressoché totale assenza di dialoghi e passando per la ricostruzione artigianale (anche per questo è stato deciso di utilizzare il 2D) dei luoghi e dei personaggi che rende in qualche modo più umano e vivo l’ambiente. Le avventure dell’illusionista, musicate efficacemente dallo stesso Chomet, sono un condensato di arte mimica e – dietro una patina di apparente semplicità – riflessioni attente sulle piccole cose della vita e sulla relazione uomo/denaro/oggetti, in tutte le sue sfumature più ironiche, drammatiche, stravaganti, delicate. Un piccolo gioiello dell’animazione dedicato a tutti quelli che amano un cinema più classico e spartano vicino a interpreti come Charlie Chaplin e Buster Keaton, oltre che indicato per tutti coloro che in sala ricercano qualche appiglio che stimoli la propria sensibilità e le emozioni più autentiche.

Voto: 7,5

lunedì 4 ottobre 2010

Buried - Sepolto di Rodrigo Cortés

C’è chi ha un atteggiamento più understatement e c’è chi invece, come si dice in gergo, se la canta e se la suona. Alla seconda categoria appartiene certamente Rodrigo Cortés, il regista di “Buried – Sepolto” che si è lasciato andare a un catalogo di apprezzamenti entusiastici sul suo secondo lungometraggio dichiarando compiaciuto che è “un grande film”, possiede “una sceneggiatura brillante”, narra di “una storia fantastica…di grande suspence” e lasciando intendere che il suo cinema è molto vicino ai lavori del geniale e indimenticato Hitchcock. E qualcuno ci è anche cascato, poiché sulla locandina promozionale troneggia una didascalia proveniente dagli Stati Uniti che recita: “Un thriller intelligente pieno di colpi di scena…che renderebbe orgoglioso Alfred Hitchcock”. A modesto parere di chi scrive, Sir Alfred non solo non sarebbe orgoglioso ma probabilmente si starà rigirando nella tomba per essere stato accostato a Cortés, il cui stile si distacca piuttosto nettamente dalla cifra stilistica del maestro inglese che manteneva la tensione emotiva altissima centellinando lo shock visivo dietro un’apparente normalità assoluta. Fatta questa doverosa e necessaria premessa, diciamo subito che il film non è poi così male. L’idea alla base è semplice e le idee immediate spesso sono quelle più efficaci: un uomo americano di nome Paul Conroy (Ryan Reynolds, noto alle cronache per essere il marito di Scarlett Johansson) si risveglia in territorio iracheno sepolto vivo in una cassa di legno contenente un telefono cellulare, un accendino (product placement del marchio Zippo, ndr) e una matita; dovrà capire come è finito lì dentro, ma soprattutto come fare ad uscirne. La forza della pellicola – forse, per alcuni, un limite – è che i suoi 90’ circa di durata sono sviluppati interamente nella penombra dei pochi (a volte…) metri della cassa: senza dubbio un merito quello di essere riusciti a intrattenere lo spettatore in condizioni tanto estreme e insolite. Nella curiosa rappresentazione vanno in scena il terrore in diretta dell’uomo che teme di non riuscire a sopravvivere (convincenti le tecniche di ripresa utilizzate, in particolare gli zoom sul volto sofferente), un po’ di retorica a stelle e strisce (le colpe della guerra pagate dagli innocenti, le istituzioni che cercano di insabbiare la verità o il cinismo delle aziende nella telefonata con il direttore del personale) e alcuni episodi gratuiti inseriti per vivacizzare l’azione (il serpente e il dito mozzato). Resta intensa una perplessità che aleggia durante e dopo la visione: ma chi ha sotterrato l’uomo, per ottenere quello che desiderava, non avrebbe fatto meglio a segregarlo in superficie? In definitiva, “Buried” è un esperimento coraggioso e interessante, ma se vi aspettate di rivivere quelle atmosfere hitchcockiane tanto pubblicizzate rimarrete a vostra volta seppelliti dalla delusione.

Voto: 6
http://filmup.leonardo.it/buriedsepolto.htm

venerdì 24 settembre 2010

Mostra del Cinema di Venezia 2010



Frutto di una prima impressione, di seguito un sintetico giudizio sui principali film visionati.


Potiche di Francois Ozon – voto: 7,5

Commedia spassosa e intelligente. Scrittura sopraffina e cast che gira splendidamente. Chi se la perde è un potiche.

Post Mortem di Pablo Larraìn – voto: 7,5

Larraìn non scherza e realizza un film per cinefili con il pelo sullo stomaco. Sequenze potentissime da gustarsi turbati in poltrona.

Cold Fish di Sion Sono – voto: 7,5

Ispirato a una storia vera, un thriller allucinogeno, grottesco e terrificante che ci consegna uno dei più grandi psicopatici della storia del cinema. Musiche che contribuiscono a tenere viva l’atmosfera d’angoscia e sesso a scandire la follia umana. Qualche lungaggine e alcune forzature sono i difetti di un film comunque da non lasciarsi sfuggire.

Road to Nowhere di Monte Hellman – voto: 7

Il ritorno di Hellman è un inno al cinema. Giudizio positivo…in attesa di comprendere alcuni passaggi assai criptici (finale compreso).

Somewhere di Sofia Coppola – voto: 7

La raccomandata (?) Sofia racconta splendidamente una storia moderna con qualche decina di sequenze di rare efficacia e originalità. Peccato per la seconda parte un po’ sottotono, compreso un finale davvero troppo ordinario.

Balada triste de trompeta di Alex de la Iglesia – voto: 7

Un vortice di pagliacci(ate) dove i generi vengono mischiati e rivisitati, con spietatezza. Da vedere, lasciando le velleità intelletuali a casa.

Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt – voto: 6,5

Lavoro affascinante quello della Reichardt. Campi lughissimi desertici e prolungati silenzi introspettivi per un viaggio difficoltoso, scegliendo una guida. Ma la sensazione che manchi qualcosa è forte.

Zebraman di Takashi Miike – voto: 6

Miike si diverte con i supereroi per una pellicola leggera tra comicità, azione e trovate digitali. Il regista giapponese ha fatto di meglio (e molto di peggio), ma merita una visione.

Essential Killing di Jerzy Skolimowski – voto: 6

Concept brillante (l’istinto omicida è nella natura dell’uomo) quello che instrada il film e che segna il ritorno dell’esperto Skolimowski. Tuttavia lo sviluppo non convince appieno e la sceneggiatura contiene parecchie incongruenze narrative. P.S. Folgorante la sequenza iniziale e affascinante l’ambientazione.

The Town di Ben Affleck – voto: 5,5

Dopo l’ottimo “Gone Baby Gone”, Ben Affleck diventa protagonista (quasi testimonial…) del suo secondo film e confeziona un crime-movie ambientato a Boston tra redenzione e amore con un retrogusto di già visto. Per chi si accontenta.

Beyond di Pernilla August – voto: 5

La regista (scoperta come attrice da Bergman che la scritturò per “Fanny e Alexander”) propone un film complesso sulla rimozione e sulle relazioni famigliari. Accolto positivamente dalla critica, è a mio parere un’opera non riuscita. I difetti principali sono: uno sviluppo narrativo didascalico , l’intenzione marcata di “costringere” lo spettatore a commuoversi e un uso del flashback poco felice.

Vallanzasca – Gli angeli del male di Michele Placido – voto: 4,5

La storia di un criminale efferato raccontata con tanta simpatia e disarmante superficialità. Un collage di scene di azione e gag dove “Renatino” (Kim Rossi Stuart) si esibisce in un milanese caricaturale. Si salvano: la stessa storia, comunque interessante, e – paradossalmente – l’aria di commedia che si respira. Marco Muller lo avrebbe voluto in Concorso: questo sì che sarebbe stato un reato.

Promises Written In Water di Vincent Gallo – voto: 4

L’anti-cinema (o semplicemente un bruttissimo film?) di un megalomane, a cui però va riconosciuta una qualità: il coraggio; oltre a quella di essere diventato un’icona artistica per aver semplicemente sdoganato la (sua) fellatio al grande pub(bl)ico. Mica scemo.

lunedì 20 settembre 2010

Post Mortem di Pablo Larraìn

Post Cinema, verrebbe da dire rifacendosi al titolo dopo la proiezione dell’ultimo lavoro del cileno Pablo Larraìn, una pellicola a suo modo innovativa e certamente dura tanto quanto gli argomenti che affronta. Santiago del Cile, 1973; Mario Cornejo (l'ottimo Alfredo Castro, già protagonista di “Tony Manero”) lavora presso l’obitorio della città occupandosi di trascrivere in diretta i dettagli tecnici delle autopsie. La sua vita è così avvilente e monocorde che probabilmente per lo spettatore è più gradevole vederlo all’opera tra i cadaveri sezionati piuttosto che girovagare per la città o prepararsi la cena (uova al tegamino, il suo piatto ricorrente) con quello sguardo dannatamente mesto e infelice. Nel suddetto scenario al crisantemo s’invaghisce della vicina di appartamento Nancy (Antonia Zegers), una scheletrica ballerina di cabaret in crisi che, un po’ per solitudine un po’ per opportunismo un po’ per compassione, dona qualche distratta e caritatevole attenzione allo spasimante funereo. Sono gli anni del golpe di Pinochet e della caduta del Presidente Salvador Allende che l’undici settembre di quell’anno arriva alla camera mortuaria con la calotta cranica frantumata da una scarica di mitra. Un suicidio dice la versione ufficiale; un omicidio opera dei golpisti è la tesi che sembra sostenere anche il regista (in questo senso, il gigno sul volto di Mario durante l’autopsia è rappresentativo). Sono giorni di fuoco e le vittime innocenti si moltiplicano; Nancy, sopravvissuta a un’aggressione a domicilio di stampo totalitarista, si rifugia in un nascondiglio con l’aiuto di Cornejo che le fornisce i viveri e qualche passatempo per alimentare anima e corpo. Corpo il quale riveste un ruolo fondamentale: che sia carne da macello (cadaveri squartati), un oggetto del desiderio (quello della donna), un’allegoria militare della morte (un mucchio di uomini ammassati su un carrello come fossero “cose” prive di valore alcuno), è chiaro che Larraìn intenda scuotere emotivamente lo spettatore con questo espediente. Mai gratuitamente, però (come il pretestuoso Von Trier di “Antichrist”, per citare un caso limite): le scene più forti e stomachevoli sono non solo pertinenti allo stile del racconto ma soprattutto incisive nel trasmettere quel senso d’identificazione e alienante degrado fisico-intellettuale del protagonista. Per ottenere questo angosciante risultato e imporre il suo tipo di lettura, il regista fa uso di una luce dai toni cupi nelle scene ambientate a lavoro creando un opportuno clima algido e utilizza delle gradazioni di colore più sporco nei momenti ambientati nell’abitazione o negli esterni conferendo alle immagini un senso di forte disagio. I (pochi) movimenti di macchina sono una prelibatezza per cinefili (la soggettiva dell’abulica scena di sesso preceduta dalle lacrime o il montaggio audio-visivo durante la sequenza della doccia/colpo di stato, ad esempio), mentre i dialoghi, anch’essi essenziali, sono un concentrato di sarcasmo e paranoia, connessi al fatto politico e dissolti nella disgraziata quotidianità dell’uomo. Certo, allo spettatore è richiesto un piccolo sforzo per superare indenne gli ostacoli più inquietanti della rappresentazione e per decifrare la vicenda storica cogliendo i continui riferimenti con la messa in scena; chi vorrà farlo, difficilmente rimarrà deluso dalla visione di “Post Mortem” e ammirerà compiaciuto (e un po’ turbato) l’impeccabile epilogo, tra i più pessimisti e potenti che il cinema degli ultimi anni ricordi.

Voto: 7,5

mercoledì 15 settembre 2010

Zebraman di Takashi Miike

Alla già nutrita famiglia di supereroi che affollano il circuito televisivo e cinematografico, va ad aggiungersi un nuovo, stravagante paladino: “Zebraman”. Batman e Spider-Man possono però stare tranquilli perché l’uomo zebrato è appunto buffo, maldestro e meno attraente dei colleghi per subentrare ai favori del grande pubblico. La mente che poteva partorire (di pancia, “senza tenere conto dei gusti delle persone”) una tale stramberia è quella del prolifico regista giapponese Takashi Miike. Shin'ichi Ichikawa (Shô Aikawa) è uno sventurato maestro di scuola elementare, deriso dai suoi alunni e disprezzato dalla sua famiglia, con una grande passione segreta per il personaggio di Zebraman, coltivata sin da ragazzino quando ammirava in tv le gesta dell’eroe mascherato. Sembra solo un hobby per adulti psicopatici annoiati, ma quando un giorno a scuola arriva un nuovo ragazzino con lo stesso interesse bianconero striato, l’insegnante prende coraggio e decide di rispolverare il costume da combattimento impolverato. Grazie a uno spassosissimo “sensore” crestato sarà in grado di rilevare i pericoli in città e intervenire prontamente per sventare le malefatte di misteriosi criminali contraddistinti da occhi verdi fluorescenti. Sembra un’operazione di routine per il nostro supereroe, ma sullo sfondo c’è una trama ben più complessa e intricata, orchestrata niente meno che da alieni che intendono impadronirsi della città e della Terra. “Zebraman” – presentata alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia ma realizzato sei anni prima nel 2004 – è una pellicola dall’involucro indubbiamente demenziale, ma che contiene sotto pelle un esempio di cinema moderno e positivamente informale, laddove l’elementare e ingenuo appiglio narrativo risulta solo un espediente per dare sfogo alla zampillante e farsesca invetiva miikiana. Non che il film sia tutto rose e fiori e indenne da passaggi a vuoto, ma possiede certamente un’innocente attrattiva bambinesca, un effetto simile a quello che si prova da giovanissimi nella stanza dei giochi o davanti al proprio cartone animato preferito. Uno stralunato salto indietro nel tempo tra sequenze ad alto tasso comico, scene d’azione “zebra kung-fu”e spiazzanti trovate digitali; puro intrattenimento per divertirsi e meravigliarsi con leggerezza. Tutto questo è “Zebraman”, questo e molto altro è Takashi Miike.

Voto: 6