mercoledì 22 dicembre 2010

Hereafter di Clint Eastwood

Sebbene abbia ancora un aspetto attraente e vigoroso, Eastwood ha superato gli ottanta anni e anagraficamente inizia a chiedersi “cosa succede dopo la morte?”; sarà per questo che quando – tramite Steven Spielberg, produttore della pellicola – gli hanno proposto di dirigere “Hereafter” (“aldilà”, in italiano) ha accettato senza riserve. Scritto da Peter Morgan (“The Queen”, “Frost/Nixon”), il film racconta la storia di tre persone utilizzando altrettanti indipendenti binari narrativi riprendendo lo stile caro a Guillermo Arriaga (sceneggiatore della Trilogia Amores perros/21 grammi/Babel di Inarritu, ndr). Marie Lelay (Cécile de France) a Parigi è una nota giornalista francese che si è salvata per miracolo durante un tragico maremoto alle Hawaii; George Lonegan (Matt Damon) a San Francisco è un medium renitente in possesso di poteri soprannaturali; Marcus a Londra perde il suo fratellino gemello in un drammatico incidente. Vite e città distanti, condizioni socio-culturali profondamente differenti, stati d'animo contrastanti ma comunque uniti a doppio filo dalla ricerca di quel qualcosa che c'è oltre il mondo terreno: l'aldilà, vero o presunto che sia. Un tema profondo e serio, certamente difficile da maneggiare; anche se di nome fai Clint e conservi in bacheca due Oscar. Il regista americano indaga sui tormenti comuni ed esplora con tatto le credenze in materia, spingendo sull'acceleratore delle emozioni come ci ha abituati, ma in questa prova manca più di qualcosa. Innanzitutto la rappresentazione parallela, che poco si addice alla macchina da presa dell'ex Ispettore Callaghan: la coreografica sequenza iniziale dello tsunami, le lezioni culinarie di George sullo sfondo di un ristorante italiano, l'attentato nella metropolitana, sono effimeri e roboanti bagliori in una rappresentazione piuttosto incolore. E l'idea, senza dubbio apprezzabile, di inserire stralci di attualità (non solo le tragedie naturali o gli atti terroristici, ma anche il product-placement integrato o l'uso massiccio di Google) alla lunga sfiancano lo spettatore. Ognuno dei protagonisti medita e patisce un trauma interiore, vive da inquieto e disadattato la propria condizione, desidera ritrovare la propria anima o “sente” quelle altrui, però dall'altra parte dello schermo arrivano briciole di energia e bisogna accontentarsi dei fantasmi dickensiani o delle visioni paranormali del medium George. Curioso, inoltre, che Eastwood si mostri assai critico attaccando frontalmente la categoria di coloro che “parlano con i morti” catalogandoli come (giusto che sia) imbroglioni, e poi arrivi a santificare il suo protagonista sensitivo solo perché decide di smettere di lucrare con questa dote. Va detto, però, che lo sguardo del regista sa essere anche pragmatico, infatti in “Hereafter” non c'è una destinazione precisa o un prevedibile Paradiso su cui approdare, non c'è una comoda strada cattolica da seguire; anzi, il veloce e stereotipato funerale del ragazzino a Londra sembra quasi prendere le distanze con ironia dalla morale cristiana. Dell'ultimo Eastwood apprezziamo l'onesta e l'ambiziosa intenzione di riflettere con umiltà su un argomento tanto indefinibile quanto sacro e inviolabile. Progetto riuscito o tentativo mancato? Per chi scrive, come probabilmente si evince, la seconda. Ciò nonostante, alcuni potrebbero apprezzare questo viaggio contemplativo e gradire la vena malinconica del vecchio Clint; con il quale condividiamo il pensiero circa l'impossibilità di stabilire l'esistenza di un'oltretomba e per cui al di qua della terra ci auguriamo di gioire per lunghi anni ammirando le sue pellicole.

Voto: 6

mercoledì 15 dicembre 2010

L'esplosivo piano di Bazil di Jean-Pierre Jeunet

Proprio in queste settimane si sta discutendo - in scrupoloso silenzio - una norma che consentirà al Governo italiano di modificare la legge 195/90 sul commercio di armamenti con la finalità di rilanciare l'esportazione nel mondo, calpestando ovviamente restrizioni, controlli e confini di carattere morale. Con tempismo perfetto arriva nei cinema più fortunati il sesto lungometraggio del pirotecnico Jean-Pierre Jeunet, autore reso celebre da "Il favoloso mondo di Amélie" che nel 2001 spiazzò pubblico e critica con la sua storia eccentrica e incantata. Scritto con il fedelissimo Guillaume Laurant, "L'esplosivo piano di Bazil" nasce da un soggetto altrettanto bizzarro, dalla genesi destrutturata: lo spunto è una storia di Tom Thumb (un orfano che lotta contro un mostro) fusa con il concetto di vendetta e sviluppata appunto nel tema etico riguardante il traffico d'armi. Bazil (Dany Boon, che ha raccolto il testimone dopo un rifiuto last minute di Jamel Debbouze) ha perso il padre in Marocco per colpa di una mina anti-uomo e anni dopo viene colpito a sua volta da una pallottola vagante durante il turno di notte in un videonoleggio. Si salva ma finisce per strada senza lavoro né una famiglia; un giorno incontra Slummer (Jean-Pierre Marielle), un vagabondo uscito da poco di galera che lo invita nella casa-caverna con i muri di metallo (eccellente lavoro della scenografa Aline Bonetto) condivisa con altri sei balzani rigattieri dai nomi evocativi: Mama Chow (Yolande Moreau), Elastic Girl (Julie Ferrier), Remington (Omar SY), Buster (Dominique Pinon), Tiny Pete (Michel Cremades) e Calculator (Marie-Julie Baup). Con il loro aiuto, Bazil cercherà rivalsa mirando i rispettivi amministratori delegati (interpretati da André Dussollier e Nicolas Marie) delle due diverse aziende produttrici di armi che hanno costruito la mina e il proiettile cause di sofferenza. Si può girare una commedia spensierata muovendo al contempo una feroce critica alla società industriale e alla classe politica? È possibile giocando con i soldatini riuscire a smuovere le coscienze degli uomini? A guardare Jeunet, non sembra impossibile: il francese rovescia la scatola dei giochi sul pavimento delle periferie parigine e combina i pezzi uscendo dalla realtà per raggiungere una dimensione cartoonesca, caratterizzata da personaggi che sembrano usciti da un libro per ragazzi e da una serie di invenzioni fantastiche (come le sculture automatizzate prese in prestito dall'artista Gilbert Peyre). Uno spettacolo scatenato, durante il quale si viene travolti dall'energia e dall'entusiasmo del regista che mostra tutta la sua abilità con le tecniche di ripresa, dispensa incursioni animate visionarie, farcisce il racconto con gustose reminiscenze fanciullesche (il modo di mangiare il "formaggino" del protagonista), lo adorna con stratagemmi figli dei nostri tempi (l'auto-product placement o l'utilizzo come espediente narrativo di YouTube), omaggia Carné, Leone, Chaplin, Bogart, Mission Impossible. Praticamente, un film nel film. Uno sguardo ironico e caustico, irriverente e provocatorio, ma anche disordinato e chiassoso, attento al focus della vicenda e a descrivere gli intrecci tra manager, trafficanti d'armi e politica (di Sarkozy...) dietro un velo fatto di gag a mascherare con sarcasmo (la sequenza dei gamberoni è da infiocchettare) le responsabilità, l'ipocrisia e i vezzi del potere. I meriti dell'efficacia di un lavoro che si muove stando in bilico sul filo dell'eccesso vanno anche ricercati in una sceneggiatura per lunghi tratti sbalorditiva e nel cast perfettamente amalgamato ed armonioso laddove, forse, è proprio Boon a mostrare qualche crepa; non perché non sia brillante o adatto al ruolo, ma perché sembra dedicarsi più all'imitazione di "Charlot" e Tati piuttosto che inventarsi il suo Bazil. Qualche vizio naturalmente c'è, come un calo di creatività nella parte centrale o quella scena – stridente - pregnante di retorica che mostra le foto dei bambini mutiliati dalle bombe; ma sono delle minuzie perché "L'esplosivo piano di Bazil " è una dichiarazione d'amore al cinema e ai cinefili, un irresistibile godimento per occhi e orecchie, una delle più deliziose buffonate mai concepite e, visto il periodo natalizio, un piccolo regalo da scartare nelle sale sotto il grande schermo.

Voto: 7,5

giovedì 2 dicembre 2010

In un mondo migliore di Susanne Bier

Dici Scandinavia e la immagini immersa nel verde, con migliaia di km di piste ciclabili e una popolazione serena che vive armoniosamente in un contesto lontano da ogni forma di prepotenza. Probabilmente è anche così, ma la regista danese Susanne Bier con "In un mondo migliore" ci mostra l'altra faccia della medaglia: quella più violenta e incivile, attraverso gli occhi di due ragazzini e dei loro genitori. Christian (Wiliam Johnk Nielsen) dopo aver perso sua madre per un cancro si trasferisce con suo padre in Danimarca dove incrocia sui banchi di scuola il coetaneo Elias (Markus Ryagaard), vittima di bullismo e isolato dal resto della classe. Sono due persone molto diverse ma con problemi simili: il primo è pieno di rancore, incattivito con il mondo e capace (decisamente troppo per la sua età...) di pianificare con ratio le proprie azioni; il secondo è timoroso, debole e soffre psicologicamente per via dei continui soprusi subiti. I "colpevoli" sono Claus (Ulrich Thomsen) reo a detta del figlio di aver desiderato la morte di sua moglie e la coppia scoppiata di genitori formata da Marianne (Trine Dyrholm) e Anton (Mikael Persbrandt), che lavora come medico per una missione umanitaria in un campo rifugiati africano. La prima parte della pellicola è efficace nel tessere con originalità le personalità dei protagonisti, il quadro sociale e le ragioni scatenanti dell'aggressività dilagante, costruendo bene la tensione e non trascurando neanche qualche virtuosismo come gli zoom improvvisi sui visi dei giovani e il montaggio alternato al ritorno delle famiglie da scuola dopo l'attacco selvaggio ai danni di un teppistello. Come la Danimarca della Bier, anche il film ha due volti: prende il sopravvento Anton - il vero protagonista nelle intenzioni della regista - e la narrazione di sdoppia su più livelli, quello che continua a seguire i progetti dei ragazzi e un altro che si concentra sulla vita dell'uomo focalizzandosi sulla sua etica impeccabile, celebrata in un esasperato rifacimento moderno della parabola "porgi l'altra guancia" e in un improbabile coupe de theatre in territorio africano. A penalizzare ulteriormente il promettente inizio si registra un crollo del clima teso e dell'atmosfera fosca che avevano incorniciato ammirevolmente le vicende dei personaggi; caduta che si acuisce nell'ultimo quarto d'ora durante il quale si cambia registro virando inaspettatamente su tinte più calde e accomodanti simili a quelle dei lieto fine della più convenzionale fiction. Peccato davvero, sarebbe stato bello uscire dalla sala con un profondo senso di inquietudine.

Voto: 5,5