venerdì 24 settembre 2010

Mostra del Cinema di Venezia 2010



Frutto di una prima impressione, di seguito un sintetico giudizio sui principali film visionati.


Potiche di Francois Ozon – voto: 7,5

Commedia spassosa e intelligente. Scrittura sopraffina e cast che gira splendidamente. Chi se la perde è un potiche.

Post Mortem di Pablo Larraìn – voto: 7,5

Larraìn non scherza e realizza un film per cinefili con il pelo sullo stomaco. Sequenze potentissime da gustarsi turbati in poltrona.

Cold Fish di Sion Sono – voto: 7,5

Ispirato a una storia vera, un thriller allucinogeno, grottesco e terrificante che ci consegna uno dei più grandi psicopatici della storia del cinema. Musiche che contribuiscono a tenere viva l’atmosfera d’angoscia e sesso a scandire la follia umana. Qualche lungaggine e alcune forzature sono i difetti di un film comunque da non lasciarsi sfuggire.

Road to Nowhere di Monte Hellman – voto: 7

Il ritorno di Hellman è un inno al cinema. Giudizio positivo…in attesa di comprendere alcuni passaggi assai criptici (finale compreso).

Somewhere di Sofia Coppola – voto: 7

La raccomandata (?) Sofia racconta splendidamente una storia moderna con qualche decina di sequenze di rare efficacia e originalità. Peccato per la seconda parte un po’ sottotono, compreso un finale davvero troppo ordinario.

Balada triste de trompeta di Alex de la Iglesia – voto: 7

Un vortice di pagliacci(ate) dove i generi vengono mischiati e rivisitati, con spietatezza. Da vedere, lasciando le velleità intelletuali a casa.

Meek’s Cutoff di Kelly Reichardt – voto: 6,5

Lavoro affascinante quello della Reichardt. Campi lughissimi desertici e prolungati silenzi introspettivi per un viaggio difficoltoso, scegliendo una guida. Ma la sensazione che manchi qualcosa è forte.

Zebraman di Takashi Miike – voto: 6

Miike si diverte con i supereroi per una pellicola leggera tra comicità, azione e trovate digitali. Il regista giapponese ha fatto di meglio (e molto di peggio), ma merita una visione.

Essential Killing di Jerzy Skolimowski – voto: 6

Concept brillante (l’istinto omicida è nella natura dell’uomo) quello che instrada il film e che segna il ritorno dell’esperto Skolimowski. Tuttavia lo sviluppo non convince appieno e la sceneggiatura contiene parecchie incongruenze narrative. P.S. Folgorante la sequenza iniziale e affascinante l’ambientazione.

The Town di Ben Affleck – voto: 5,5

Dopo l’ottimo “Gone Baby Gone”, Ben Affleck diventa protagonista (quasi testimonial…) del suo secondo film e confeziona un crime-movie ambientato a Boston tra redenzione e amore con un retrogusto di già visto. Per chi si accontenta.

Beyond di Pernilla August – voto: 5

La regista (scoperta come attrice da Bergman che la scritturò per “Fanny e Alexander”) propone un film complesso sulla rimozione e sulle relazioni famigliari. Accolto positivamente dalla critica, è a mio parere un’opera non riuscita. I difetti principali sono: uno sviluppo narrativo didascalico , l’intenzione marcata di “costringere” lo spettatore a commuoversi e un uso del flashback poco felice.

Vallanzasca – Gli angeli del male di Michele Placido – voto: 4,5

La storia di un criminale efferato raccontata con tanta simpatia e disarmante superficialità. Un collage di scene di azione e gag dove “Renatino” (Kim Rossi Stuart) si esibisce in un milanese caricaturale. Si salvano: la stessa storia, comunque interessante, e – paradossalmente – l’aria di commedia che si respira. Marco Muller lo avrebbe voluto in Concorso: questo sì che sarebbe stato un reato.

Promises Written In Water di Vincent Gallo – voto: 4

L’anti-cinema (o semplicemente un bruttissimo film?) di un megalomane, a cui però va riconosciuta una qualità: il coraggio; oltre a quella di essere diventato un’icona artistica per aver semplicemente sdoganato la (sua) fellatio al grande pub(bl)ico. Mica scemo.

lunedì 20 settembre 2010

Post Mortem di Pablo Larraìn

Post Cinema, verrebbe da dire rifacendosi al titolo dopo la proiezione dell’ultimo lavoro del cileno Pablo Larraìn, una pellicola a suo modo innovativa e certamente dura tanto quanto gli argomenti che affronta. Santiago del Cile, 1973; Mario Cornejo (l'ottimo Alfredo Castro, già protagonista di “Tony Manero”) lavora presso l’obitorio della città occupandosi di trascrivere in diretta i dettagli tecnici delle autopsie. La sua vita è così avvilente e monocorde che probabilmente per lo spettatore è più gradevole vederlo all’opera tra i cadaveri sezionati piuttosto che girovagare per la città o prepararsi la cena (uova al tegamino, il suo piatto ricorrente) con quello sguardo dannatamente mesto e infelice. Nel suddetto scenario al crisantemo s’invaghisce della vicina di appartamento Nancy (Antonia Zegers), una scheletrica ballerina di cabaret in crisi che, un po’ per solitudine un po’ per opportunismo un po’ per compassione, dona qualche distratta e caritatevole attenzione allo spasimante funereo. Sono gli anni del golpe di Pinochet e della caduta del Presidente Salvador Allende che l’undici settembre di quell’anno arriva alla camera mortuaria con la calotta cranica frantumata da una scarica di mitra. Un suicidio dice la versione ufficiale; un omicidio opera dei golpisti è la tesi che sembra sostenere anche il regista (in questo senso, il gigno sul volto di Mario durante l’autopsia è rappresentativo). Sono giorni di fuoco e le vittime innocenti si moltiplicano; Nancy, sopravvissuta a un’aggressione a domicilio di stampo totalitarista, si rifugia in un nascondiglio con l’aiuto di Cornejo che le fornisce i viveri e qualche passatempo per alimentare anima e corpo. Corpo il quale riveste un ruolo fondamentale: che sia carne da macello (cadaveri squartati), un oggetto del desiderio (quello della donna), un’allegoria militare della morte (un mucchio di uomini ammassati su un carrello come fossero “cose” prive di valore alcuno), è chiaro che Larraìn intenda scuotere emotivamente lo spettatore con questo espediente. Mai gratuitamente, però (come il pretestuoso Von Trier di “Antichrist”, per citare un caso limite): le scene più forti e stomachevoli sono non solo pertinenti allo stile del racconto ma soprattutto incisive nel trasmettere quel senso d’identificazione e alienante degrado fisico-intellettuale del protagonista. Per ottenere questo angosciante risultato e imporre il suo tipo di lettura, il regista fa uso di una luce dai toni cupi nelle scene ambientate a lavoro creando un opportuno clima algido e utilizza delle gradazioni di colore più sporco nei momenti ambientati nell’abitazione o negli esterni conferendo alle immagini un senso di forte disagio. I (pochi) movimenti di macchina sono una prelibatezza per cinefili (la soggettiva dell’abulica scena di sesso preceduta dalle lacrime o il montaggio audio-visivo durante la sequenza della doccia/colpo di stato, ad esempio), mentre i dialoghi, anch’essi essenziali, sono un concentrato di sarcasmo e paranoia, connessi al fatto politico e dissolti nella disgraziata quotidianità dell’uomo. Certo, allo spettatore è richiesto un piccolo sforzo per superare indenne gli ostacoli più inquietanti della rappresentazione e per decifrare la vicenda storica cogliendo i continui riferimenti con la messa in scena; chi vorrà farlo, difficilmente rimarrà deluso dalla visione di “Post Mortem” e ammirerà compiaciuto (e un po’ turbato) l’impeccabile epilogo, tra i più pessimisti e potenti che il cinema degli ultimi anni ricordi.

Voto: 7,5

mercoledì 15 settembre 2010

Zebraman di Takashi Miike

Alla già nutrita famiglia di supereroi che affollano il circuito televisivo e cinematografico, va ad aggiungersi un nuovo, stravagante paladino: “Zebraman”. Batman e Spider-Man possono però stare tranquilli perché l’uomo zebrato è appunto buffo, maldestro e meno attraente dei colleghi per subentrare ai favori del grande pubblico. La mente che poteva partorire (di pancia, “senza tenere conto dei gusti delle persone”) una tale stramberia è quella del prolifico regista giapponese Takashi Miike. Shin'ichi Ichikawa (Shô Aikawa) è uno sventurato maestro di scuola elementare, deriso dai suoi alunni e disprezzato dalla sua famiglia, con una grande passione segreta per il personaggio di Zebraman, coltivata sin da ragazzino quando ammirava in tv le gesta dell’eroe mascherato. Sembra solo un hobby per adulti psicopatici annoiati, ma quando un giorno a scuola arriva un nuovo ragazzino con lo stesso interesse bianconero striato, l’insegnante prende coraggio e decide di rispolverare il costume da combattimento impolverato. Grazie a uno spassosissimo “sensore” crestato sarà in grado di rilevare i pericoli in città e intervenire prontamente per sventare le malefatte di misteriosi criminali contraddistinti da occhi verdi fluorescenti. Sembra un’operazione di routine per il nostro supereroe, ma sullo sfondo c’è una trama ben più complessa e intricata, orchestrata niente meno che da alieni che intendono impadronirsi della città e della Terra. “Zebraman” – presentata alla 67esima Mostra del Cinema di Venezia ma realizzato sei anni prima nel 2004 – è una pellicola dall’involucro indubbiamente demenziale, ma che contiene sotto pelle un esempio di cinema moderno e positivamente informale, laddove l’elementare e ingenuo appiglio narrativo risulta solo un espediente per dare sfogo alla zampillante e farsesca invetiva miikiana. Non che il film sia tutto rose e fiori e indenne da passaggi a vuoto, ma possiede certamente un’innocente attrattiva bambinesca, un effetto simile a quello che si prova da giovanissimi nella stanza dei giochi o davanti al proprio cartone animato preferito. Uno stralunato salto indietro nel tempo tra sequenze ad alto tasso comico, scene d’azione “zebra kung-fu”e spiazzanti trovate digitali; puro intrattenimento per divertirsi e meravigliarsi con leggerezza. Tutto questo è “Zebraman”, questo e molto altro è Takashi Miike.

Voto: 6

sabato 11 settembre 2010

Somewhere di Sofia Coppola

Chi è Johnny Marco? Una risposta a questo interrogativo la troviamo nella sequenza iniziale: quando vediamo la sua Ferrari “360 Modena”che gira a velocità sostenuta su un piatto percorso circolare è chiaro che ci troviamo di fronte a un uomo (un attore, più nello specifico) ricco, annoiato, capriccioso, sprezzante del pericolo, probabilmente solo. Lo scenario di riferimento è il dorato mondo di Hollywood; gli interni sono dello Chateau Marmont, una sorta di residence per star zeppo di aneddoti (la morte di John Belushi per overdose, ad esempio) e dove si sono alternati negli anni miti del cinema e della musica come James Dean e John Lennon, per fare due nomi quasi a caso.
L’autrice e co-produttrice della pellicola è Sofia Coppola, una delle più talentuose, discusse e nondimeno patinate registe americane, famosa oltre che per essere la figlia del grande Francis (che in questa occasione le ha prestato le lenti Zeiss utilizzate in “Rusty il selvaggio” nel 1983, per ottenere “una sensazione più romantica”) anche per l’osannato e fin troppo idolatrato “Lost in translation”. L’operazione si prefigge di mostrare uno sguardo sulla Los Angeles contemporanea e riflettere sulle vicende esistenziali del protagonista (Stephen Dorff) che vaga nel torpore senza una direzione precisa ma che dovrà dirigersi – appunto – “somewhere”.

La regista è in palla, sia sotto il profilo tecnico sia creativo. Nella prima parte della pellicola traccia con poche, clamorose sequenze (tutte rigorosamente a inquadratura fissa, come peraltro nel resto del lungometraggio) la situazione socio-culturale di riferimento e le caratteristiche principali di Johnny, che si divide tra intriganti pedinamenti al semaforo, esibizioni di lap dance a domicilio, party routinari con pennichella in zona erogena, bizzarri massaggi da “rimpacchettare” e grottesche conferenze stampa promozionali.
Un bel giorno arriva – spedita dall’ex moglie – sua figlia undicenne Cleo (Elle Fanning) e bisogna, almeno provvisoriamente, rivedere l’efferscente e trasgressivo leitmotiv quotidiano.

Immerso nelle musiche originali dei Phoenix e con l’ausilio (non sempre convincente) di pezzi di Foo Fighters, Gwen Stefani , Sebastien Tellier, e ottimamente contornato dallo stile sartoriale debitore a “Belli e dannati” di Gus Van Sant, giungiamo con il freno a mano (inventivo) tirato all’epilogo, forse un po’ sbiadito ma tutto sommato coerente con l’incipit e certamente meritevole di una visione per la lucidità con la quale ogni scena estrosa disegna una stupefacente, evanescente normalità.

Leone d’oro alla 67esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.


Voto: 7