giovedì 10 novembre 2011

Love for Life di Gu Changwei

In un piccolo villaggio cinese un uomo senza scrupoli di nome Qi Quan commercia sangue attraendo la povera comunità con la promessa di denaro facile. Una condotta amorale che diffonde il virus dell’AIDS e terrorizza gli abitanti sani, che porteranno i contagiati a rintanarsi in una vecchia scuola-ghetto gestita proprio dal padre dell'abbietto Qi Quan e che ospita l’altro figlio De Yi (Aaron Kwok). De Yi s’innamorerà presto della deliziosa Qin Qin (Ziyi Zhang di “Memorie di una geisha”), infetta anche lei e sposata con suo cugino; i due uniti nel dramma dell’HIV inizieranno a vedersi di nascosto e poi, una volta scoperti, ufficializzeranno la relazione.

“Love for Life”, terzo film del cinese Gu Changwei – già stimato direttore della fotografia di Zhang Yimou e Chen Kaige – contiene diversi elementi strutturali che lo rendono potenzialmente accattivante ma che, per come sono stati sviluppati, non facilitano la lettura della pellicola durante la visione e anzi sottendono una multipla chiave di lettura.

Dal titolo internazionale, la strada più accreditata sembra essere la storia d’amore tra due protagonisti tormentati, che condividono un destino crudele e inseguono un piccolo, effimero sogno di felicità. Il rapporto, però, innesca anche una riflessione di carattere universale sulla vita: conoscere in anticipo la propria sorte, sapere che rimane poco tempo rinvigorisce la vitalità dei protagonisti scatenando in loro delle emozioni travolgenti. Stati d’animo capaci di muovere energicamente gli uomini ma che li pone di fronte a drammatici timori su chi sarà il primo a dire addio all’altro.


C’è poi il focus sul traffico illegale di sangue e sulla malattia. Gu Changwei si sofferma inizialmente sullo scenario socio-culturale provando forse a sensibilizzare il pubblico circa l’esistenza di simili fenomeni che fanno leva sulla disperazione e ignoranza dei cittadini delle aree sottosviluppate. Il regista intende inoltre mandare un messaggio contro l’atteggiamento discriminatorio di cui sono vittime i malati di AIDS; volontà che emerge con evidenza durante la narrazione attraverso numerose scene che mostrano – sul filo del grottesco – la diffidenza e la fobia della comunità nell’interazione con “l’altro”.

Una danza, lenta e inesorabile verso la morte scandita dalla voce fuori campo del bambino deceduto nei minuti iniziali che contribuisce ad alimentare un’atmosfera fiabesca, per una vicenda toccante immersa in un rosso fulgido e sanguinoso (colore ricorrente anche nei costumi e negli oggetti, oltre che in un finale curiosamente macabro) ma cui manca un baricentro emotivo oltre che un’identità in grado di accreditare il progetto.

Voto: 5,5

martedì 8 novembre 2011

Nuit Blanche di Frederic Jardin

Due uomini in macchina indossano il passamontagna e a velocità sostenuta tagliano la strada a dei corrieri per strappare loro una borsa zeppa di cocaina purissima. Nelle peggiori città capita per regolare i conti o farsi le scarpe tra clan rivali. Non è il nostro caso perché i delinquenti alla guida dell’auto che attacca sono agenti di polizia corrotti. Non va tutto liscio per Vincent (Tomer Sisley) che si prende una coltellata all’addome da un balordo e nella colluttazione si fa smascherare dal figlioccio del boss Marciano (Serge Riaboukine), che per riavere la droga, rapisce suo figlio e dà inizio a una concitata “nuit blanche”. I giocatori in campo sono diversi: un altro sbirro venduto (Julienne Boisselier), una poliziotta intenzionata a scoprire le trame corrotte dei colleghi, il turco Feydek (Joey Starr) dalla faccia cattiva e il suo socio d’affari che rivendicano la partita di merce.

Il quarto lungometraggio di Frederic Jardin è un thriller denso di azione e colpi di scena, girato quasi interamente in un risto-dancing parigino, dove succede una baraonda: tutti ingannano tutti tra sparatorie, corpi a corpo, tattiche e lampi d’ironia (l’abito Dolce&Gabbana rovinato, le ripetute inquadrature sul garzone irregolare della cucina). Una scrittura sicuramente in palla ma che ogni tanto cede il passo a qualche eccesso. L’impressione è che si cerchi sempre il colpo a effetto, il contorsionismo narrativo con il quale spiazzare lo spettatore a ogni scena. Se da una parte la sceneggiatura gioca il ruolo robusto del pilastro, dall’altra si sgretola su se stessa trascurando ingenuamente alcuni dettagli non proprio marginali: tavoli e cucine del ristorante che funzionano a tarda notte, locale-fortino del boss sorvegliato da due sole persone, un gran trambusto per ore senza che nessuno intervenga o chiami le forze dell’ordine, personaggi “invincibili” duri a morire. È come se il regista avesse voluto costruire la tensione attraverso un patchwork d’idee e trovate spettacolari, a tratti anche geniali ma che alla lunga rischiano, al contrario, di allentare il pathos del racconto. Non è d’aiuto neanche la vicenda centrale del rapimento, edificata sul difficile rapporto con il figlio adolescente (Samy Seghir) che si evolverà nella maniera più classica e benevola.

Peccato, qualche taglio alla scrittura avrebbe alleggerito “Nuit Blanche” e reso meno sopra le righe un lavoro comunque interessante, girato con buon piglio e ben recitato; arricchito dalla fotografia di Tom Stern (da dieci anni in tutti i film di Clint Eastwood), opaca nelle sequenze degli inseguimenti e negli scontri a fuoco, brillante nelle riprese degli interni e quando combinata con la musica diegetica della pista da ballo. Una pellicola costata solo tre milioni di euro, presentata a Roma 2011 nella sezione fuori concorso “L’Altro Cinema | Extra” che ha tutte le caratteristiche per arrivare nelle sale e incontrare il gradimento del pubblico.

Voto: 6

martedì 21 giugno 2011

Cars 2 di John Lasseter e Brad Lewis

Come ogni anno che si rispetti arriva nelle sale un nuovo, coloratissimo film della Pixar Animation Studios. Anche questa volta, dopo “Toy Story 3”, si tratta di un ritorno: “Cars 2” (in 3D, purtroppo), sequel di “Cars – Motori ruggenti” del 2006 diretto da John Lasseter, cui si aggiunge come co-regista Brad Lewis (produttore di “Ratatouille”). Partiamo col dire che i due episodi sono molto diversi; non solo perché sono trascorsi cinque anni (un periodo notevole per il mondo dell’animazione) dall’esordio al cinema delle funamboliche auto magiche. Innanzitutto le location: dalla tranquilla, bambinesca e desertica Radiator Springs si è passati a un tour de force internazionale che abbraccia Tokio, Parigi, Londra e Italia (in un’immaginaria località marittima di nome Porto Corsa, ispirata per il look da Portofino). Al soggetto – classico Pixar – dell’amicizia e a quello tematico delle corse d’auto, si aggiunge un nuovo argomento: lo spionaggio internazionale; “non una parodia, ma vero spionaggio” ci tiene a precisare Lasseter. In effetti, l’incipit della pellicola lascia un po’ spiazzati perché nella sequenza vediamo una specie di James Bond gommato di nome Finn McMissile, un nuovo personaggio che affronta una delicata missione in mare aperto sfoderando lanciamissili e gadget prodigiosi. Quando Saetta McQueen – reduce dalla quarta vittoria in Piston Cup – è invitato dall’ex-magnate del petrolio (ora convertito in veicolo elettrico) Miles Axlerod al Gran Premio Mondiale, decide di arruolare in squadra il fidato Carl “Cricchetto” Attrezzi, che alla presentazione in Giappone viene scambiato per un’abilissima spia, vicenda che dà il là a un bizzarro intrigo internazionale. Ed è proprio Cricchetto con la sua simpatia il mattatore di “Cars 2”: si innamora della new entry Holley Shiftwell e rafforza il rapporto d’affetto con Saetta, che a sua volta dovrà vedersela con l’antipatico napoletano Francesco Bernulli, un campione di Formula Racers rappresentato in maniera poco politically correct come “il tipico smargiasso italiano”. Troppo caotico e cosmopolita, l’ultimo Pixar non riesce a graffiare come nelle ultime uscite (WALL-E, Up, Toy Story 3), in altre parole non si dimostra altrettanto abile nel toccare le corde emotive dello spettatore; latita quel puro sapore di commozione cui ci siamo abituati gustando multiformi scene d’amore e d’amicizia, di altruismo e lealtà, scarseggiano quei valori sui quali storicamente poggia l’impianto filmico della casa cinematografica californiana. Certo, dal punto di vista tecnico non si discute: un’innovazione continua dove luoghi, ambienti e oggetti sono ricostruiti meticolosamente con un gusto vivace, le riprese di corse e inseguimenti diventano più spettacolari, l’atmosfera generale è oltremodo dinamica. Però, manca appunto un vero baricentro, non c’è un focus partecipativo, e questo toglie semplicità dunque efficacia alla narrazione. Nella storia trova posto (anzi, è il fulcro del complotto) l’attualità con una riflessione “Green” circa le energie rinnovabili e l’utilizzo di uno speciale carburante “pulito” di nome Allinol, la cui parabola sembra esprimere un parere piuttosto critico e pessimista riguardo all’argomento. Detto questo, non fatevi intimorire dalle critiche: sono anche frutto delle grandi attese maturate sulla base dell’eccellenza artistica dei ragazzi terribili di Emeryville; il film è godibile e contiene diversi momenti divertenti, quindi consigliato per consumare in leggerezza una delle prossime serate estive lontano dall’afa. Questa volta, però, potete lasciare a casa i Kleenex.

Voto: 6

venerdì 17 giugno 2011

Drive di Nicolas Winding Refn

Stuntman part time, meccanico di giorno e autista per rapine di notte; un uomo (Ryan Gosling) di poche parole e parecchio sangue freddo al volante è il protagonista di "Drive" (dall'omonimo noir di James Sallis), nona pellicola del quarantenne danese Nicolas Winding Refn, che ha conquistato il Premio per la Miglior Regia al 64° Festival di Cannes.

Ambientato nella multietnica Los Angeles, il film parte spingendo a tavoletta con la lunga sequenza prima dei titoli di testa di un furto-fuga-inseguimento, scanditi da musiche synth martellanti targate Chromatics (album "Night Drive", ndr) dove il sobrio conducente avvolto nel suo bomber feticcio tiene a bada la tensione con il rombo del propulsore in uno degli incipit cinematografici più adrenalinici degli ultimi anni. Minuti carichi di tensione che offrono uno spettacolo eccitante, creato prevalentemente con l'uso suggestivo del sonoro: il ticchettio delle lancette, i rombi di motore, le sirene della polizia, la rotazione vorticosa delle pale di un elicottero, la voce diegetica dalla radio degli agenti e più di tutto l'ansiogeno brano "Tick Of The Clock" dal già menzionato disco.

Per il guidatore taciturno sembra aprirsi un futuro da pilota grazie a Shannon (Bryan Cranston di "Breaking Bad") e all'investimento di una coppia di criminali (Bernie Rose e Nino, rispettivamente Albert Brooks e Ron Perlman), ma prima di iniziare a calcare i circuiti si invaghisce della dolce vicina di casa Irene (Carey Mulligan). Il Driver senza nome è freddo e solitario ma ben presto si lega alla donna, e per aiutare suo marito Standard (Oscar Isaac) appena uscito da galera, finisce in una brutta situazione che scatena il suo vigore cruento in un crescendo di violenza, esplosa fragorosamente nelle scene del motel e dell'ascensore - dove ancora una volta Refn lavora persuadendo con l'ausilio del suono, lasciando solo immaginare al pubblico la ferocia assassina. In quest'ultima sequenza c'è una sintesi del film: Driver è intrappolato nella cabina insieme a Irene e ad un killer con il colpo in canna; il tempo si dilata, c'è un bacio appassionato mentre il cavaliere-pilota fa scudo con il corpo e scocca il primo di una serie di brutali fendenti raggiungendo un climax imperioso.

Proprio la doppia personalità rappresenta l'aspetto più interessante dell'uomo; fa emergere il contrasto tra il quieto ragazzo che si sporca le mani in officina per pochi dollari e la furia nervosa di uno psicopatico che in alcuni momenti non sfigurerebbe al cospetto dello schizzato protagonista di "Taxi Driver". Il regista sembra voler tratteggiare il profilo di un nuovo supereroe metropolitano, un oscuro giustiziere buono che invece del mantello indossa come in un rituale guanti da guida e giubbotto stampato con uno scorpione. Animale amante degli angoli bui e predatore di topi (di fogna), dettaglio iconografico su cui indugiano allusivamente le inquadrature.

Riprese dinamiche che proiettano emotivamente lo spettatore dentro la storia e lo deliziano con angolazioni che vanno a creare sorprendenti composizioni visive e con altri brillanti movimenti di macchina, oltre all'uso quasi straniante del montaggio ritmico e del ralenti a modellare un linguaggio filmico poderoso e in sincrono con le trascinanti musiche di Cliff Martinez.

Gosling/Driver, stunt di se stesso (emblamatico il momento in cui indossa per la seconda volta la maschera), è impassibile nella sua faccia imbalsamata da giocatore di poker; di rado regala un sorriso e si esprime attraverso codici non verbali come il gesto ripetuto - spia di un pieno di aggressività - dello stringere i pugni. La sua recitazione è notevole tanto quanto quella dei comprimari, su cui spiccano i due cattivi: uno spietato e sarcastico ("ho le mani sporche anch'io", "dai una pulita in giro prima di aprire la pizzeria") Brooks e un Perlman sopra le righe che deve ringraziare (?) madre natura per avergli fornito un volto da perfetto figlio di puttana.

Le caratteristiche della vicenda (lo sviluppo della furia dell'individuo difronte al pericolo, la storia d'amore, la rapina finita male) non sono originali ma Refn slalomeggia con una certa maestria tra gli ostacoli del déjà vuconcentrando la camera sulla contrapposizione mitezza vs. aggressività dell'imperturbabile e imprendibile (Walter Hill docet) "driver". La forza universale del film sta nel suo essere contemporaneo, nella capacità del regista di offrire un trattamento coinvolgente (le panoramiche sullo sfondo tentacolare di LA, l'uso puntuale della colonna sonora, il graphic design dei titoli), nel rivisitare con personalità l'ordinario script di partenza facendone un piccolo, cupo manifesto urbano di ultima generazione.

Voto: 8

venerdì 13 maggio 2011

Il primo incarico di Giorgia Cecere

Il primo incarico è anche quello di Giorgia Cecere che dopo gli anni di studio sotto l’egida professionale di Gianni Amelio e dopo aver scritto alcuni film per Edoardo Winspeare arriva all’esordio alla regia. La storia, concepita insieme a Xiang-Yang e Pierpaolo Pirone, è ambientata nella provincia pugliese nell’Italia degli anni 50 dove una giovane di nome Nena (Isabella Ragonese) decide di separarsi dal suo principe azzurro borghese per trasferirsi in un piccolo paese dell’entroterra dove inizierà a lavorare come maestra in una scuola elementare. La ragazza è determinata, vuole dimostrare il suo valore a se stessa e all’innamorato, non intende sedersi sugli allori di una vita agevole; anche perché proviene da una famiglia umile e, in cuor suo, vorrebbe fornire prova di meritarsi la convocazione negli eleganti salotti dell’alta società. Giunta in un paese tanto incontaminato quanto arcaicamente rappresentativo di un certo contesto socio-culturale rurale, dove l’unico modello possibile per la donna è di serva dell’uomo-padrone, Nena s’imbatte in uno scenario desolante fatto di tuguri, persone invisibili e un silenzio rotto solo dal vento. Un giorno arriva la lettera dell’amato Francesco che le confessa di essere in viaggio con un’altra donna e per Nena è un colpo duro che la condurrà in modo penoso a legarsi a un ragazzotto del paese. La vicenda non è priva di senso critico né accomodante con la protagonista, ma non si dipana efficacemente e mostra parecchie smagliature narrative nella sua evoluzione: il matrimonio con Giovanni, indotto per mantenere la cattedra, in un certo senso contraddice la personalità di Nena e quel desiderio di emancipazione iniziale. La ragazza, non solo si trova a condividere passivamente la vita con uno sconosciuto (per di più, un prototipo esemplare di maschio meridionale primitivo del tempo: irrispettoso, rozzo, ignorante) ma addirittura sembra compiaciuta e comincia ad apprezzare l’uomo grazie a degli episodi impalpabili (vedi quando lui le lancia un monito dissuadendola dal far cercare gli alunni tra i campi perché ci sono “i serpi”). In generale, la decisione di utilizzare quasi tutti attori non professionisti, alla lunga si paga con un risultato non all’altezza del cast tecnico, in gran parte della narrazione fuori traiettoria e privo dell’incisività necessaria ad aggiungere il giusto pathos che, al contrario, elargisce la Ragonese: la sua interpretazione è inappuntabile per intensità e delicata identificazione nel personaggio. Peccato, perché la regista mostra un talento non comune lasciando trasparire con rigore una tecnica espressiva classica che affonda le sue radici in certo cinema neorealista e un’accurata ricerca visiva grazie alla quale dipinge poeticamente l’affascinante location pugliese. Rimane un esordio interessante, ma poco a fuoco nel cercare di districarsi tra sentimentalismi in stile mèlo, ricostruzione storica, riflessioni sulla condizione umana, sguardo documentaristico, echi western e (mancata) rivalsa femminista. Attendiamo speranzosi il prossimo incarico.

Voto: 5,5

sabato 9 aprile 2011

The Next Three Days di Paul Haggis

John Brennan (Russell Crowe) e sua moglie Lara (Elizabeth Banks) sono una coppia affiatata: si amano perdutamente e crescono un figlio che adorano. Un giorno la donna viene arrestata e poi condannata per omicidio (aggressione violenta per futili motivi); John è sicuro della sua innocenza e inizia a battersi per dimostrarlo. Le prove, però, sembrerebbero schiaccianti e dopo tre anni la Corte Suprema respinge l’ultimo appello. Che cosa fare? Continuare a lottare forse velleitariamente o rassegnarsi all’idea di perdere per sempre la persona che ami? Oppure si potrebbe organizzare un’evasione! È quello che decide di fare l’uomo: architettare un complicato progetto di fuga famigliare. Ed è così che un tranquillo professore d’inglese si trasforma in un criminale. Il mutamento avviene tra ricerche in Rete, letture (s)consigliate e l’incontro con un ex-detenuto (Liam Neeson, in una piccola parte) che lo illumina con i suoi sapienti consigli. L’ideatore e il regista di questo rifacimento del francese “Pour Elle” è Paul Haggis, già acclamato per i due Oscar in successione per le sceneggiature di “Million Dollar Baby” e “Crash – Contatto Fisico” (da lui anche diretto e vincitore del premio come Miglior Film), oltre ad aver scritto con successo anche “Lettere da Iwo Jima” e “Casino Royale”. In “The Next Three Days”, un thriller concitato con buona tensione e un montaggio dal ritmo serrato, il problema – paradossalmente – è proprio nella sceneggiatura. Lo spunto di partenza non è definito e articolato con incisività, il trattamento non appare né coerente né approfondito adeguatamente. Il risultato è una storia che si mostra reboante in ogni sequenza, carica di eccessi e dettagli superflui. Un uomo, John, che si aggira nelle strade di Pittsburgh alla ricerca di soldi come un bandito consumato, sua moglie imperturbabile nonostante gli eventi, la polizia rappresentata macchiettisticamente, la presenza di Olivia Wilde nel ruolo di un’affascinante mamma e, soprattutto, la didascalica risoluzione finale, davvero assai pedante e forzata. Certamente in alcune situazioni sarebbe meglio lasciare allo spettatore qualche dubbio e interrogativo, piuttosto che congedarlo consegnando lui il libretto di istruzioni (nel caso specifico, più simile a quello dell’Uovo Kinder rispetto ai famigerati opuscoli Ikea). Tutto ciò ridimensiona la riflessione dell’autore sul concetto di fiducia e ovatta l’interesse riguardo al valore e al significato assoluto della parola data da qualcuno che amiamo che invece avrebbe potuto detenere un ruolo centrale. Ne rimane un film con una regia intensa e spettacolare, affascinante per alcuni aspetti, intimamente recitato da Russell Crowe, ma smaccatamente eclatante e poco plausibile.

Voto: 5

lunedì 14 marzo 2011

Il Rito di Mikael Håfström

Il regista svedese Mikael Håfström è convinto che il rito dell'esorcismo susciti in tutti noi grande fascino e smodato interesse. Quando la produzione gli ha affidato la macchina da presa, è stato rapito dall'idea di esplorare l'argomento proponendo il mistero, la tensione e la violenza propri di questo tema. L'assunto di partenza è discutibile, ma è pur vero che un cult robustissimo come "L'esorcista" ha lo stesso impianto inquietante. Ispirato a storie vere e al libro omonimo del cronista Matt Baglio, "Il Rito" parte con il piede giusto mostrando Michael Kovak (l'esordiente Colin O'Donoghue) intento a maneggiare cadaveri insieme al ruvido padre Istvan (Rutger Hauer). Sono solo cinque effimeri e illusori minuti che cedono subito il passo a un tourbillon di noia: Michael sceglie la missione religiosa per sfuggire all'impresa di pompe funebri di famiglia; al termine del periodo di studi presso il collegio ecclesiastico, quando decide di rinunciare alla carriera clericale, un incidente tanto tragico quanto pretestuoso gli farà cambiare idea e lo porterà in Vaticano a prendere lezioni di esorcismo. In una Roma esasperatamente chiassosa e burina il giovane seminarista - scettico circa la veridicità degli eventi soprannaturali - entra in contatto con il controverso Padre Lucas (Anthony Hopkins), una specie di leggenda dell'insolito settore con migliaia di demoni allontanati in carriera. Come prevedibile, Michael si ravvedrà entrando in contatto diretto con gli spiriti maligni e il rapporto con il sacerdote-maestro si evolverà in un crescendo di terrificanti rituali, talmente poco riusciti da provocare qualche ilarità. Le riflessioni più interessanti abbozzate dal regista sulla presunta esistenza di un Diavolo rimangono in superficie, nell'iniziale resistenza che oppone il seminarista invitando i suoi superiori a rivolgersi alla psichiatria per curare i "posseduti" e per mezzo dei ripetuti flashback che portano Michael indietro nel tempo, alla sua infanzia tormentata scandita dal rapporto complesso di odio-amore con il becchino interpretato da Hauer. Il fuoriclasse Hopkins tenta velleitariamente di tenere in piedi un baraccone che con il susseguirsi delle sequenze sprofonda alternando colpi di scena dozzinali a una piatta messa in scena, passando per una pseudo-storia d'amore tra il giovane Kovak e la reporter Angeline impersonata da una sbiadita Alice Braga, comunque dignitosa al cospetto del legnoso e scialbo Colin O'Donoghue. Una bolsa variazione sul tema che anestetizza ogni emozione e non riesce a mostrare l'inquietudine del protagonista né a creare una decorosa atmosfera di turbamento. A distanza siderale dal classico di William Friedkin; anche meno tetro e spaventoso de "L'esorciccio" di Ingrassia.

Voto: 3

giovedì 10 marzo 2011

I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko

Il mondo è cambiato: dobbiamo abituarci a riconsiderare alcuni di quelli che pensavamo essere dei pilastri sociali. Il concetto occidentale di famiglia fondata sul matrimonio e sull’unione tra uomo e donna è diventato obsoleto nella società postmoderna. L’emancipazione omosessuale – più timida nel nostro paese – ha fatto sì che in molte città del mondo civilizzato si consumino apertamente delle durature e legalmente convalidate relazioni omosex. “I ragazzi stanno bene” di Lisa Cholodenko intende dunque focalizzarsi sui sentimenti degli esseri umani e non vuole mandare, come alcuni potrebbero pensare, un messaggio moralistico a favore dei matrimoni gay. La storia in questione è quella di Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore), due lesbiche sulla cinquantina, che conducono amorevolmente una vita serena con tanto di figli adolescenti (Joni e Laser) avuti grazie all’inseminazione artificiale. Il padre biologico è lo scapolone Paul (Mark Ruffalo), rintracciato dai ragazzi e piombato inaspettatamente nelle vite di tutti a sconvolgerne la quotidianità e condizionarne le prospettive. Paul ha un forte ascendente su Joni (Mia Wasikowska) e abbastanza successo con Laser (Josh Hutcherson), ma è mal digerito dalla grintosa Nic che è quella che a casa porta i pantaloni e quindi vive il rapporto con l’uomo in maniera ostile paventando un confronto diretto. Jules invece, architetto mancato riciclatasi come progettista di esterni, accoglie con entusiasmo l’offerta che le fa Paul, stuzzicato sessualmente da quella donna sposata e “diversa” con la quale condivide – senza averla mai sfiorata – un figlio. La regista lascia intendere chiaramente che non ci sono differenze nei rapporti sentimentali e nella vita il percorso è comune per tutti. Dà per scontato che nessuno si impressioni vedendo due donne a letto che fanno petting, ma allo stesso tempo con occhi sinceri ci mostra le contraddizioni e i sensi di colpa delle mamme quando cercano di far confessare al figlio (estraneo ai fatti) la propria omosessualità. Condizione questa, che è utilizzata per tracciare le coordinate che permettono di individuare la nuova area gay, nel cui solco s’inserisce la narrazione, in perfetto equilibrio tra retorica lesbo-chic e analisi sociologica, rileggendo in chiave moderna una tematica divenuta fuorviante perché abusata e compassionevole. La famiglia descritta con lucidità – in ventuno giorni di riprese – dalla Cholodenko è come tutte le altre: in continua evoluzione e scandita da luci e ombre nel rapporto di coppia. La scelta di utilizzare due donne “padre” potrebbe apparire come un artificio furbetto per richiamare un pubblico alla moda, invece sostiene strutturalmente il discorso corale sulla vita cui tutti gli eccellenti interpreti prendono parte e che tocca la sua vetta nella sequenza della cena a casa di Paul; momento di massima tensione in cui l’emozione è servita e i nodi vengono (letteralmente) al pettine. Sullo sfondo si muove il personaggio di Mark Ruffalo, sciupafemmine redento e improbabile papà, che decide di virare (con troppa disinvoltura?) dai party pieni di belle ragazze verso un modello di famiglia più tradizionale, abbagliato dall’intensa e agrodolce sensazione di divenire genitore ex abrupto. I due figli condivisi Joni e Laser non si limitano al ruolo di comparsa ma contribuiscono con la crescita dei loro personaggi a raccontare la condizione anomala in cui vivono e la naturale mutazione generazionale, in particolare la timida diciottenne raffigura empaticamente la propria transitoria fase evolutiva. Non ingannino la leggerezza narrativa e la patina divertente perché dietro di essi si celano i grandi temi della vita, come l’amore e quell’incondizionato bisogno della famiglia che ci suggerisce nel finale una Joni smarrita all’arrivo al college; simbolico crocevia in cui tutti colgono un dettaglio prezioso, compreso lo spettatore che in questo bell’esempio di cinema attuale può riflettere sul concetto di nucleo familiare e sull’annosa questione omofobia.


Voto: 7

venerdì 4 marzo 2011

Il gioiellino di Andrea Molaioli

Il gioiellino in questione è la Parmalat della gestione Tanzi, che alla fine del 2003 implose nel suo castello di sabbia bucato da quattordici miliardi di euro e affondò tra le menzogne che portarono al più grande scandalo finanziario privato che l'Europa ricordi. Il regista Andrea Molaioli (già ammirato con “La ragazza del lago”), insieme agli sceneggiatori Ludovica Rampoldi e Gabriele Romagnoli, tenta di raccontare a carte scoperte lo scandalo che si consuma nel decennio che va dal 1992 ai primi anni 2000 e le ragioni che hanno portato quel management inadeguato a frantumare le norme più elementari in un crescendo grottesco di bilanci truccati, società off-shore, corruzione e connivenza politica (principalmente, con la DC di De Mita). I personaggi principali della vicenda sono noti ma hanno nomi di fantasia: il direttore finanziario è il ragioniere Ernesto Botta (Toni Servillo), il patron è Amanzio Rastelli (Remo Girone), la sua nipotina opportunista è Laura Aliprandi (Sarah Felberbaum), il direttore marketing è Filippo Magnaghi (Lino Guanciale). Rastelli è il classico imprenditore-accentratore, dal fatturato importante ma dalla modesta cultura d’impresa, il self made man cui è sfuggito di mano il bolide in cui siede alla guida, che sembra aver imparato a memoria la teoria sui significati intangibili della marca (“Non vendiamo solo un prodotto ma valori”) ma che calpesta irresponsabilmente ogni più elementare principio etico. La tesi di Molaioli è che dietro gli ingarbugliati e abietti scenari della finanza si nascondano degli uomini dallo spessore professionale inadeguato. Per questo motivo la sua macchina da presa, vagamente sorrentiniana, si sofferma sul ragionier Botta: sui suoi limiti (non ha proseguito gli studi, ha poco dimestichezza con il computer, impara l'inglese ascoltando cassette audio) e sul rapporto con “lo squalo” Laura Aliprandi. Tuttavia, parere di chi scrive, a fare accadere i grandi crac contribuiscono più che altro la disonestà, il cinismo e l'avidità degli uomini. Sarebbe stata più appassionante e pertinente un'analisi in questo senso. In linea generale, manca un approfondimento psicologico circa le motivazioni del proprietario e dei dirigenti Leda (nome di fantasia, acronimo di “latte e derivati alimentari”), su quelle vite sbiadite, sulla loro brama di gloria, sui paradossi della gestione. Lo svolgimento degli eventi in molti punti appare meccanico e si ferma alla cronaca dei fatti priva di una visione più intima e un'indagine più approfondita sulle relazioni che intercorrono tra tutti i personaggi. C'è la ricostruzione personale, ma manca un'elaborazione avvincente. Il valore aggiunto è il sempre bravissimo Toni Servillo, che tuttavia (per colpe non sue) si sta chiudendo in una sorta di stereotipo sulla scia di Titta Di Girolamo de “Le conseguenze dell'amore”; gli ultimi tre film (“Gorbaciof” e “Una vita tranquilla”, oltre a questo) che vedono come protagonista l'attore di Afragola mostrano lo stesso uomo introverso, solitario, sfuggente e restio a emozionarsi. Molto convincente il rifacimento dell'azienda dal punto di vista marketing e comunicazione (Leda ha un logo, una linea di prodotti, pubblicità e sponsorizzazioni sportive che si evolvono durante la pellicola), e affascinanti le riprese negli stabilimenti di produzione. Quest’attenzione al dettaglio – per niente scontata – ha fornito un grande contributo in termini di “attualizzazione” e attrazione verso uno spettatore che a conti fatti può dirsi parzialmente (scremato e) soddisfatto.

Voto: 6,5

giovedì 3 febbraio 2011

Another Year di Mike Leigh

I requisiti per assaporare appieno il cinema proposto da Mike Leigh in “Another Year” sono almeno due. Primo: bisogna avere pazienza, per apprezzare la lenta tessitura del dialogo e tentare di immergersi nella coscienza dei personaggi. Secondo: entrare in sala – se non allegri – sorridenti, poiché si prospettano due ore malinconiche e disincantate in tutto il loro amaro realismo. Durante il corso delle quattro stagioni, la vita scorre per una coppia felice di sessantenni londinesi (il geologo Tom e la psicologa Gerri) che coltiva amorevolmente l’orto e si prende cura di un’amica (Mary) un po’ schizofrenica perché non riesce a scrollarsi di dosso la sua solitudine. Un obiettivo che potrebbe rigenerarla è Joe, il figlio trentenne dei coniugi, a sua volta desideroso di trovare una compagna con cui costruire una famiglia. In estate arriva in città per il weekend anche Ken, un compagno di infanzia di Tom, alle prese anch’egli con una situazione desolante, che ripercorre masticando grossolanamente cibo e alzando il gomito dentro una t-shirt con una stampa che è tutta un programma: “Less thinking…more drinking”. Entreranno anche in campo una gradita aspirante nuora e il mesto Ronnie, chiuso in un silenzio devastante a causa della perdita della moglie. L’apprezzato regista inglese, già Leone d’oro con “Il segreto di Vera Drake”, mette in scena con la consueta disarmante semplicità una storia intima, sviluppata attraverso le intense e lunghe conversazioni che intercorrono tra gli amabili ed eccellenti interpreti. Le loro personalità sono lavorate chirurgicamente, i loro desideri e rimpianti bucano lo schermo, la quotidianità dell’esistenza è condivisa con lo spettatore come in una grande, universale lezione di antropologia sociale. Laddove, forse, Leigh non è altrettanto impeccabile, è nella decisione di focalizzarsi sull’infelice persona di Mary, rubando inquadrature, parole e sentimenti agli altri attori. Una smagliatura, si potrebbe definire, perché “Another Year” è un insegnamento emozionante, un vademecum contemporaneo per capire meglio cosa significano la famiglia, l’amicizia, l’amore e la morte nel mondo che stiamo vivendo.

Voto: 8

venerdì 28 gennaio 2011

Il truffacuori di Pascal Chaumeil

Nomen omen. Si potrebbe pensare che quella legata ai titoli sia una faccenda di luoghi comuni, ma “Il truffacuori” conferma la tesi del “nome profetico” e condensa nella sua denominazione obbrobriosa tutta l’essenza del film. La storia in questione parla di un sabotatore di coppie professionista chiamato Alex Lippi (Romain Duris) che è ingaggiato da un padre intenzionato a evitare il matrimonio di sua figlia (Juliette, interpretata da Vanessa Paradis) con l’innamorato, affascinante, intelligente e facoltoso uomo d’affari inglese Jonathan (Andrew Lincoln). La ragione è tanto semplice quanto insensata: con lui si annoierebbe a morte. Alex, una specie di agente segreto con i dardi di Cupido al contrario, è carismatico, seducente, scattante e un maestro dell’inganno; con i suoi soci Mélanie (Julie Ferrier) e Marc (François Damiens) tenta di consapevolizzare le donne infelici circa la possibilità di avere un compagno “migliore”. Nel caso della bella (?) e altezzosa Juliette, quindi, bisognerà fare un’eccezione deontologica (motivo: difficoltà finanziarie) poiché la trentenne enologa tra dieci giorni sposerà l’uomo della sua vita. Ecco dunque cominciare la missione sotto falsa identità di guardia del corpo e mettere in piedi la consueta farsa costruita sfruttando il talento camaleontico della spassosa Mélanie e le nozioni tecniche informatiche del buffo Marc, oltre alla già citata abilità menzognera di Alex che – conoscendo le passioni della vittima – la inebria a colpi di Roquefort a colazione, canzoni di George Michael e dvd di “Dirty Dancing”. Il regista Pascal Chaumeil, con buona esperienza televisiva ma all’esordio cinematografico, realizza una commedia sentimentale con inserti d’azione e altri umoristici ispirandosi a grandi successi hollywoodiani come “Accadde una notte”; ma il risultato non è del tutto convincente perché l’intreccio narrativo che sostiene la pellicola è fragile, il susseguirsi degli eventi principali è prevedibile, c’è qualche gag demenziale di troppo e alcuni aspetti sono un po’ lasciati al caso (il misterioso segreto della protagonista femminile, l’ostinazione del padre alla rottura con Jonathan) oltre al fatto che si possono notare peccati veniali sparsi che denotano una scarsa cura dei particolari (la borsa Hermès onnipresente, l’ammaccatura sulla portiera posteriore della Mercedes di servizio). Ciò nonostante, “Il truffacuori” possiede certamente delle qualità: diverse sequenze sono divertenti e il trio capitanato dall’ottimo Romain Duris è in stato di grazia e ben amalgamato nei loro tratti distintivi, aggiungendo un buon ritmo ai dialoghi e qualche lampo in un racconto comunque piuttosto inconsistente. Una genuina, colorata e frizzante soluzione per impegnare due ore spensierate con gli amici; meno adatta per quella fascia di cinefili che in sala prediligono la mente al (truffa)cuore.

Voto: 5,5