venerdì 28 gennaio 2011

Il truffacuori di Pascal Chaumeil

Nomen omen. Si potrebbe pensare che quella legata ai titoli sia una faccenda di luoghi comuni, ma “Il truffacuori” conferma la tesi del “nome profetico” e condensa nella sua denominazione obbrobriosa tutta l’essenza del film. La storia in questione parla di un sabotatore di coppie professionista chiamato Alex Lippi (Romain Duris) che è ingaggiato da un padre intenzionato a evitare il matrimonio di sua figlia (Juliette, interpretata da Vanessa Paradis) con l’innamorato, affascinante, intelligente e facoltoso uomo d’affari inglese Jonathan (Andrew Lincoln). La ragione è tanto semplice quanto insensata: con lui si annoierebbe a morte. Alex, una specie di agente segreto con i dardi di Cupido al contrario, è carismatico, seducente, scattante e un maestro dell’inganno; con i suoi soci Mélanie (Julie Ferrier) e Marc (François Damiens) tenta di consapevolizzare le donne infelici circa la possibilità di avere un compagno “migliore”. Nel caso della bella (?) e altezzosa Juliette, quindi, bisognerà fare un’eccezione deontologica (motivo: difficoltà finanziarie) poiché la trentenne enologa tra dieci giorni sposerà l’uomo della sua vita. Ecco dunque cominciare la missione sotto falsa identità di guardia del corpo e mettere in piedi la consueta farsa costruita sfruttando il talento camaleontico della spassosa Mélanie e le nozioni tecniche informatiche del buffo Marc, oltre alla già citata abilità menzognera di Alex che – conoscendo le passioni della vittima – la inebria a colpi di Roquefort a colazione, canzoni di George Michael e dvd di “Dirty Dancing”. Il regista Pascal Chaumeil, con buona esperienza televisiva ma all’esordio cinematografico, realizza una commedia sentimentale con inserti d’azione e altri umoristici ispirandosi a grandi successi hollywoodiani come “Accadde una notte”; ma il risultato non è del tutto convincente perché l’intreccio narrativo che sostiene la pellicola è fragile, il susseguirsi degli eventi principali è prevedibile, c’è qualche gag demenziale di troppo e alcuni aspetti sono un po’ lasciati al caso (il misterioso segreto della protagonista femminile, l’ostinazione del padre alla rottura con Jonathan) oltre al fatto che si possono notare peccati veniali sparsi che denotano una scarsa cura dei particolari (la borsa Hermès onnipresente, l’ammaccatura sulla portiera posteriore della Mercedes di servizio). Ciò nonostante, “Il truffacuori” possiede certamente delle qualità: diverse sequenze sono divertenti e il trio capitanato dall’ottimo Romain Duris è in stato di grazia e ben amalgamato nei loro tratti distintivi, aggiungendo un buon ritmo ai dialoghi e qualche lampo in un racconto comunque piuttosto inconsistente. Una genuina, colorata e frizzante soluzione per impegnare due ore spensierate con gli amici; meno adatta per quella fascia di cinefili che in sala prediligono la mente al (truffa)cuore.

Voto: 5,5

giovedì 20 gennaio 2011

127 Ore di Danny Boyle

Succede che i casi e la natura spingano un uomo in territori inimmaginabili, costringendolo a meditare sulla vita e accostarsi alla morte in una situazione tra il paradossale e l’agghiacciante: rimanere bloccati più di cinque giorni in uno sperduto crepaccio del paradisiaco Canyonlands National Park nello Utah con una grossa roccia a immobilizzare, schiacciandoli senza scampo, mano e parte dell’avambraccio. Ѐ l’orribile storia capitata realmente a uno spericolato e solitario ventottenne americano di nome Aron Ralston (James Franco), che un fine settimana del 2003 si avventurò nella natura selvaggia alla volta del Blue John Canyon e vi restò – suo malgrado – centoventisette ore, con scarse risorse nutrizionali, obbligato ad andare oltre ogni umano limite per sopravvivere. Quest’avvenimento, da cui è tratto il libro “Between a Rock and a Hard Place”, ha colpito la sensibilità e la fantasia dell’inglese Danny Boyle, regista poliedrico e bravo a (ri)innovarsi come pochi, già arrivato al successo con “Trainspotting” e celebrato con gli otto Oscar di “The Millionaire”. Purtroppo per il malcapitato protagonista, “127 Ore” non è la fiaba milionaria di Jamal e, al contrario di Mumbai, lo scenario desertico del Canyon costruisce un silenzio ascetico, interrotto solo dalla musica diegetica delle cuffie e dall’incontro con due giovani turiste. In un simile paesaggio incontaminato e lontano dalla giungla d’asfalto della città, Aron è felice e si diverte un mondo anche quando si ribalta malamente con la sua mountain bike; allora ci si mette di traverso il fato e durante un trekking solitario tra le rocce dorate accade il grottesco incidente accennato in precedenza. Ѐ l’inizio dell’angosciante weekend di sofferenza per il ragazzo, intrappolato con lo zaino – fortunatamente – in spalla all’interno di una crepa larga novanta centimetri a fare lentamente i conti con la morte e a meditare sulla sua esistenza aiutato da una videocamera; episodio, autentico, che permette al protagonista di svelarsi e instaurare un dialogo con lo spettatore tramite i messaggi-testamento che lascia ai propri cari. Un aspetto assai interessante, che farà indignare gli integralisti della tensione drammatica nuda e cruda, ma che invece rappresenta con ogni probabilità una soluzione indovinata è quella di ricorrere, integrandola con i pensieri di Ralston, alla tecnica dello jump cut che consente di raccontare metaforicamente e in modo energico delle soporifere situazioni, permettendo di interrompere la staticità (forzata) dell’azione con inaspettate e beffarde arguzie. Ironia che, appunto, bilancia le mostruose atrocità di cui si è testimoni e crea due universi paralleli: uno tragico e l’altro farsesco; una contrapposizione organizzata, testimoniata anche dal singolare utilizzo di due direttori della fotografia (Anthony Dod Mantle ed Enrique Chediak) a sdoppiare e differenziare l’effetto visivo in base alle esigenze semantiche del regista. Nel perverso e frastornante gioco del destino, Aron le tenta tutte per sopravvivere e non perdere la lucidità dopo tante ore di disperata inerzia; l’unico appiglio con cui evitare la paura e la disperazione è abbracciare con piena coscienza il valore della vita. Peccato per qualche intrusione di troppo della (bella) colonna sonora che non è risparmiata neanche nella scena clou (inguardabile, da quanto è cruenta) e per quel finale troppo consolatorio che rischiano di penalizzare una pellicola affascinante, impreziosita dalla straordinaria performance di James Franco che si cala perfettamente nella parte turbando lo spettatore e costringendolo a sentire la polvere di quel dannato crepaccio.

Voto: 7

giovedì 13 gennaio 2011

La versione di Barney di Richard J. Lewis

Quando si guarda un film tratto da un romanzo famoso, s’innesca spontaneamente una (terribile) questione: il libro è migliore o peggiore? Probabilmente è più facile ottenere un grande risultato da un racconto medio (Kubrick con “ The Shining”) piuttosto che il contrario (l’adattamento di “American Psycho”); però, dopo tutto, letteratura e cinema esprimono linguaggi distinti, quindi il pensiero di chi scrive è che i puristi della trasposizione dovrebbero limitare i raffronti se intendono godersi genuinamente Barney Panofsky tradotto in immagini. Il testo cui si allude è il celebre best-seller dello scrittore canadese Mordecai Richler, che – poco prima di venire a mancare – iniziò il progetto cinematografico alla fine degli anni 90 con l’attuale produttore Robert Lantos (già sponsor di Cronenberg ed Egoyan, che compaiono in un cameo, ndr), pervicacemente impegnato da allora a trovare una penna che potesse tramandare dignitosamente la parola dell’autore. Individuato un giovane e sconosciuto sceneggiatore (Michael Konyves) e affidata la macchina da presa a Richard J. Lewis (nove stagioni di “CSI” e poco altro) il travaglio è terminato per la gioia di tutti (compreso il nostro Domenico Procacci, co-produttore della pellicola). Barney (Paul Giamatti), acciaccato settantenne, decide di raccontarsi la storia della propria vita per fare chiarezza sulla morte del migliore amico Boogie (Scott Speedman), di cui rimane il sospettato maggiore anche perché è tallonato e perseguitato ossessivamente dall’agente O’Hearne (Mark Addy) che pubblica addirittura un libro sull’argomento. Evidentemente, la vicenda di Boogie è solo un espediente narrativo per permettere di scoprire l’essenza del protagonista e la movimentata esistenza di un uomo istintivo, spiritoso, pratico e insolente come pochi, che proveniente da un quartiere-ghetto riesce ad affermarsi con tenacia in puro stile self made man. L’anziano Panofsky apre faticosamente e in modo disordinato i cassetti della memoria rivivendo – sulle note di un’emozionante colonna sonora – il periodo di soggiorno a Roma (nella stesura originale era Parigi, ndr) dove frequenta un gruppo di artisti tra i quali la prima inaffidabile moglie Clara (Rachelle Lefevre), il secondo matrimonio al ritorno a Montreal con la viziata “Mrs. P” (Minnie Driver), il successo con la bizzarra compagnia televisiva “Totally Unnecessary Productions”, il rapporto con il “saggio” padre Izzy (uno spassoso Dustin Hoffman) e la terza indimenticabile unione d’amore con l’incantevole Miriam (Rosamund Pike). Ed è su quest’ultimo aspetto che il racconto si sofferma, svelando Barney attraverso un montaggio ellittico con le sue peculiarità e idiosincrasie, la sfacciataggine e il cinismo ma anche l’assertività, la devozione e la gentilezza che manifesta per l’ultima moglie; la cui centralità narrativa è tuttavia eccessiva considerato anche che il cast tecnico aveva a disposizione un materiale di partenza che offriva svariati spunti, come ad esempio i vuoti di memoria del protagonista che potevano essere “valorizzati” in maniera più brillante. Inoltre, la sfrontatezza, l’estro e lo sprezzo che ammiriamo ad esempio nella sfiziosa sequenza del secondo matrimonio, cedono il passo nella parte finale a un surplus di sentimentalismo che in qualche modo intacca il ritmo e la personalità carismatica del personaggio principale; ma che forse ci spiega anche, amaramente, che nonostante una vita assai vivace e appagante Barney è un uomo qualunque, con le debolezze e le paure di tutti. Certamente la prova notevole di Paul Giamatti e l’eclettismo di Hoffman rappresentano un valore aggiunto importante e quando i due s’incrociano lo spettacolo è assicurato; non a caso, il pregio maggiore del film è la capacità di divertire, grazie a dei dialoghi pungenti e scoppiettanti che rendono per lunghi tratti coinvolgente la visione. In definitiva, quello partorito da Lantos è un lavoro onesto, che tenta di raccontare senza fronzoli la storia turbolenta e intensa, caratterizzata da picchi e discese, criticabile e rispettabile di un uomo insolito; e in questo la pellicola è molto fedele a se stessa, poiché alterna luci e ombre ma riesce a confermarsi una buona “versione” delle tante possibili.

Voto: 6,5

lunedì 10 gennaio 2011

I migliori film del 2010


1. Il profeta (Jacques Audiard) 9
2. Potiche - La bella statuina (François Ozon) 8
3. Il segreto dei suoi occhi (Juan José Campanella) 8
4. Il tempo che ci rimane (Elia Suleiman) 8
5. Toy Story 3 - La grande fuga (Lee Unkrich) 8
6. L'uomo nell'ombra (Roman Polanski) 7,5
7. L'uomo che verrà (Giorgio Diritti) 7,5
8. Post Mortem (Pablo Larrain) 7,5
9. Le quattro volte (Michelangelo Frammartino) 7,5
10. The Social Network (David Fincher) 7,5

11. La bocca del lupo (Pietro Marcello) 7,5
12. L'illusionista (Sylvain Chomet) 7,5
13. Quella sera dorata (James Ivory) 7,5
14. L'esplosivo piano di Bazil (Jean-Pierre Jeunet) 7,5
15. Fantastic Mr. Fox (Wes Anderson) 7,5
16. Gli amori folli (Alain Resnais) 7,5
17. Somewhere (Sofia Coppola) 7
18. Shutter Island (Martin Scorsese) 7
19. Draquila - L'italia che trema (Sabina Guzzanti) 7
20. I gatti persiani (Bahman Ghobadi) 7

Inediti
1. Cold Fish (Sion Sono)
2. Road to Nowhere (Monte Hellman)
3. Tamara Drewe (Stephen Frears)
4. Balada triste de trompeta (Alex de la Iglesia)
5. Meek's Cutoff (Kelly Reichardt)