Un giovane portuale di Marghera (Fabio Volo), un professore di educazione fisica che si arrangia facendo il pizzaiolo (Pierfrancesco Favino) e un uomo appena uscito di galera (Paolo Sassanelli) tentano di rapire in segno di riscatto sociale un infido Ministro della Repubblica, ma essendo dei sequestratori incapaci portano via per errore un onesto sottosegretario (Giorgio Tirabassi); invischiati nella storia si ritroveranno anche un ricercatore universitario reazionario (Giuseppe Battiston) e una giornalista TV (Claudia Pandolfi). Sono questi i personaggi che tengono insieme il quarto lungometraggio (realizzato con il sostegno della Regione autonoma della Valle D'Aosta e girato tra Roma e Cervinia, ndr) del quarantacinquenne Lucio Pellegrini; una commedia che tenta la strada ambiziosa di voler divertire facendo riflettere su temi delicati come la precarietà nel mondo del lavoro. Una storia strampalata e un po' furbetta che intende aprire un discorso complesso che abbraccia appunto la disoccupazione, la politica accentratrice lontana dalle reali esigenze della gente e quest'ultima che accetta senza batter ciglio la situazione socialmente irreversibile nella quale versa. L'intenzione è nobile, ma l'approccio è di un semplicistico disarmante: l'abulica e pretestuosa citazione chomskyiana de “La fabbrica del consenso” (un sistema di propaganda con il quale viene manipolata l'opinione pubblica, ndr) racchiude la pochezza nell'analisi del film: una ricca farcitura di concetti in superficie e un'essenza assai povera. Certo, il regista è il primo a dichiarare: “Non faccio film a tesi e non voglio dare messaggi di nessun genere”. Però se una pellicola ha come motore l'attualità e gli argomenti trattati sono funzionali allo sviluppo dei personaggi e della narrazione, ci si aspetterebbe un approfondimento superiore e non ci si può esimere dal confronto con la rappresentazione della realtà. Qualche gag simpatica qua e là non basta a mettere sul binario giusto un lavoro con non pochi difetti, non ultimo un cast poliedrico certamente ma altrettanto privo di mordente dove emerge carismatico il solo Favino. Da ricordare alcune canzoni della colonna sonora come l'indimenticata hit di Alan Sorrenti che al film presta il titolo e “Le ragazze di Osaka” di Eugenio Finardi; per il resto, rimarrà molto poco nel cuore e nella mente dello spettatore all'uscita di “Figli delle stelle”.
Voto: 4
http://filmup.leonardo.it/figlidellestelle.htm
Chi è meridionale lo sa bene: affibbiare gli pseudonimi è sport nazionale. Quando poi vivi in una città folcloristica come Napoli e ti ritrovi un’appariscente voglia appiccicata proprio sulla fronte, puoi stare certo che il tuo nome si trasformerà in “Gorbaciof” (evidentemente, un adattamento dialettale del cognome del celebre leader dell’Unione Sovietica). Il protagonista del sesto lungometraggio del regista napoletano Stefano Incerti è il contabile del carcere di Poggioreale, all’anagrafe Marino Pacileo (Toni Servillo), un uomo taciturno, disonesto, viscido e - a modo suo - sensibile. Durante il lavoro è solito rubare qualche soldo dalla cassaforte da utilizzare a un variopinto e losco tavolo da gioco allestito nel retro di un ristorante cinese, di cui fanno regolarmente parte tra gli altri un noto avvocato e il proprietario dello stesso esercizio orientale, padre della bella Lila (Mi Yang), per la quale Pacileo nutre un forte interesse sentimentale. L’aspirante suocero s’indebita con il poker e, per evitare conseguenze ancor più disgraziate, Gorbaciof intensifica i prelievi fuorilegge alla cassa del carcere e tampona con il contante la piaga sociale della famiglia cinese. Anche per lui, però, le carte non girano e si ritrova invischiato in traffici di tangenti e rapine. Come spesso accade a Servillo nelle interpretazioni per Paolo Sorrentino, il personaggio principale del film gli viene cucito addosso; la macchina da presa lo tallona silenziosa in stile documentaristico e ne traccia un ritratto in cui emergono le smorfie e l’andamento smargiasso, tipici di chi è abituato a vivere per strada. Rispetto a “Le conseguenze dell'amore” o “Il Divo”, dove l'ottimo Toni poteva brillare grazie anche a una sceneggiatura appassionante, in “Gorbaciof” ha giocato da solista trainando una storia incolore e un cast – a cominciare dalla protagonista femminile – abbastanza piatto. Tuttavia, Incerti è ammirevole nel suo tentativo (riuscito) di raccontare gli eventi in forma originale risparmiando i dialoghi e privilegiando le immagini, segnate efficacemente dalle musiche originali di Teho Teardo (Il Divo) e montate dal solido Marco Spoletini (Gomorra). Con un finale graffiante avrebbe potuto rivelarsi anche una pellicola da raccomandare agli amanti del cinema acqua e sapone, ma sfortunatamente l'epilogo grottesco lo ridimensiona e lascia allo spettatore un retrogusto amaro, coerente con l'atmosfera del film ma meno con i favori del pubblico.
Voto: 5,5
In un’epoca tridimensionale come quella che cinematograficamente stiamo vivendo, dove la Pixar anno dopo anno macina vorticosamente innovazioni e l’industria di settore sforna pellicole 3D con sempre più frequenza, c’è qualcuno che va controcorrente: è il caso del francese Sylvain Chomet (nomination all’Oscar con “Appuntamento a Belleville”) che ha adattato, disegnato e diretto “L’illusionista”, da una sceneggiatura originale di Jacques Tati, scritta a fine anni 50 e recuperata a distanza di mezzo secolo negli archivi del Centre National de la Cinématographie. Per comprendere meglio questa pellicola d’animazione, bisogna entrare nel microcosmo di Tati: accenniamo alla sua figura cercando di non apparire eccessivamente semplicistici. Jacques Tati (1908-1982), mimo e attore di cabaret negli anni 30, è stato un regista d’indubbia grandezza e spiccata originalità nel panorama internazionale sul versante della commedia satirica; il suo umorismo sobrio e sottilissimo, pretesto dissacrante con cui tratteggiava le caratteristiche dell’uomo, ne fa un acuto e inimitabile osservatore della società moderna. “L’illusionista” dunque riprende la medesima poetica e introduce un tassello più malinconico e intimo: sembra che la storia fosse stata accantonata perché troppo vicina alle vicende personali di Tati, quasi un soggetto autobiografico. Non a caso il testo affronta principalmente due argomenti: la fine dell’epoca del music hall a scapito del vigoroso rock’n’roll e soprattutto il tema universale del rapporto tra padre e figlia (quello del regista con la sua Sophie Tatischeff?). Un attempato illusionista – ormai fuori moda – vaga tra una città e un’altra alla ricerca di un pubblico che resti stupefatto alla vista dei suoi trucchi. Non va troppo bene, ma un giorno, durante un’esibizione in un pub sulla costa scozzese, incontra una giovane ingenua e incantata di nome Alice che è disposta a credere alle sue “magie” e segue l’uomo che la guiderà delicatamente e amorevolmente all’età adulta. Il racconto, ambientato a Parigi e in prevalenza Edimburgo, sembra fuori dal tempo; a cominciare dalla pressoché totale assenza di dialoghi e passando per la ricostruzione artigianale (anche per questo è stato deciso di utilizzare il 2D) dei luoghi e dei personaggi che rende in qualche modo più umano e vivo l’ambiente. Le avventure dell’illusionista, musicate efficacemente dallo stesso Chomet, sono un condensato di arte mimica e – dietro una patina di apparente semplicità – riflessioni attente sulle piccole cose della vita e sulla relazione uomo/denaro/oggetti, in tutte le sue sfumature più ironiche, drammatiche, stravaganti, delicate. Un piccolo gioiello dell’animazione dedicato a tutti quelli che amano un cinema più classico e spartano vicino a interpreti come Charlie Chaplin e Buster Keaton, oltre che indicato per tutti coloro che in sala ricercano qualche appiglio che stimoli la propria sensibilità e le emozioni più autentiche.
Voto: 7,5
C’è chi ha un atteggiamento più understatement e c’è chi invece, come si dice in gergo, se la canta e se la suona. Alla seconda categoria appartiene certamente Rodrigo Cortés, il regista di “Buried – Sepolto” che si è lasciato andare a un catalogo di apprezzamenti entusiastici sul suo secondo lungometraggio dichiarando compiaciuto che è “un grande film”, possiede “una sceneggiatura brillante”, narra di “una storia fantastica…di grande suspence” e lasciando intendere che il suo cinema è molto vicino ai lavori del geniale e indimenticato Hitchcock. E qualcuno ci è anche cascato, poiché sulla locandina promozionale troneggia una didascalia proveniente dagli Stati Uniti che recita: “Un thriller intelligente pieno di colpi di scena…che renderebbe orgoglioso Alfred Hitchcock”. A modesto parere di chi scrive, Sir Alfred non solo non sarebbe orgoglioso ma probabilmente si starà rigirando nella tomba per essere stato accostato a Cortés, il cui stile si distacca piuttosto nettamente dalla cifra stilistica del maestro inglese che manteneva la tensione emotiva altissima centellinando lo shock visivo dietro un’apparente normalità assoluta. Fatta questa doverosa e necessaria premessa, diciamo subito che il film non è poi così male. L’idea alla base è semplice e le idee immediate spesso sono quelle più efficaci: un uomo americano di nome Paul Conroy (Ryan Reynolds, noto alle cronache per essere il marito di Scarlett Johansson) si risveglia in territorio iracheno sepolto vivo in una cassa di legno contenente un telefono cellulare, un accendino (product placement del marchio Zippo, ndr) e una matita; dovrà capire come è finito lì dentro, ma soprattutto come fare ad uscirne. La forza della pellicola – forse, per alcuni, un limite – è che i suoi 90’ circa di durata sono sviluppati interamente nella penombra dei pochi (a volte…) metri della cassa: senza dubbio un merito quello di essere riusciti a intrattenere lo spettatore in condizioni tanto estreme e insolite. Nella curiosa rappresentazione vanno in scena il terrore in diretta dell’uomo che teme di non riuscire a sopravvivere (convincenti le tecniche di ripresa utilizzate, in particolare gli zoom sul volto sofferente), un po’ di retorica a stelle e strisce (le colpe della guerra pagate dagli innocenti, le istituzioni che cercano di insabbiare la verità o il cinismo delle aziende nella telefonata con il direttore del personale) e alcuni episodi gratuiti inseriti per vivacizzare l’azione (il serpente e il dito mozzato). Resta intensa una perplessità che aleggia durante e dopo la visione: ma chi ha sotterrato l’uomo, per ottenere quello che desiderava, non avrebbe fatto meglio a segregarlo in superficie? In definitiva, “Buried” è un esperimento coraggioso e interessante, ma se vi aspettate di rivivere quelle atmosfere hitchcockiane tanto pubblicizzate rimarrete a vostra volta seppelliti dalla delusione.
Voto: 6
http://filmup.leonardo.it/buriedsepolto.htm