giovedì 10 novembre 2011

Love for Life di Gu Changwei

In un piccolo villaggio cinese un uomo senza scrupoli di nome Qi Quan commercia sangue attraendo la povera comunità con la promessa di denaro facile. Una condotta amorale che diffonde il virus dell’AIDS e terrorizza gli abitanti sani, che porteranno i contagiati a rintanarsi in una vecchia scuola-ghetto gestita proprio dal padre dell'abbietto Qi Quan e che ospita l’altro figlio De Yi (Aaron Kwok). De Yi s’innamorerà presto della deliziosa Qin Qin (Ziyi Zhang di “Memorie di una geisha”), infetta anche lei e sposata con suo cugino; i due uniti nel dramma dell’HIV inizieranno a vedersi di nascosto e poi, una volta scoperti, ufficializzeranno la relazione.

“Love for Life”, terzo film del cinese Gu Changwei – già stimato direttore della fotografia di Zhang Yimou e Chen Kaige – contiene diversi elementi strutturali che lo rendono potenzialmente accattivante ma che, per come sono stati sviluppati, non facilitano la lettura della pellicola durante la visione e anzi sottendono una multipla chiave di lettura.

Dal titolo internazionale, la strada più accreditata sembra essere la storia d’amore tra due protagonisti tormentati, che condividono un destino crudele e inseguono un piccolo, effimero sogno di felicità. Il rapporto, però, innesca anche una riflessione di carattere universale sulla vita: conoscere in anticipo la propria sorte, sapere che rimane poco tempo rinvigorisce la vitalità dei protagonisti scatenando in loro delle emozioni travolgenti. Stati d’animo capaci di muovere energicamente gli uomini ma che li pone di fronte a drammatici timori su chi sarà il primo a dire addio all’altro.


C’è poi il focus sul traffico illegale di sangue e sulla malattia. Gu Changwei si sofferma inizialmente sullo scenario socio-culturale provando forse a sensibilizzare il pubblico circa l’esistenza di simili fenomeni che fanno leva sulla disperazione e ignoranza dei cittadini delle aree sottosviluppate. Il regista intende inoltre mandare un messaggio contro l’atteggiamento discriminatorio di cui sono vittime i malati di AIDS; volontà che emerge con evidenza durante la narrazione attraverso numerose scene che mostrano – sul filo del grottesco – la diffidenza e la fobia della comunità nell’interazione con “l’altro”.

Una danza, lenta e inesorabile verso la morte scandita dalla voce fuori campo del bambino deceduto nei minuti iniziali che contribuisce ad alimentare un’atmosfera fiabesca, per una vicenda toccante immersa in un rosso fulgido e sanguinoso (colore ricorrente anche nei costumi e negli oggetti, oltre che in un finale curiosamente macabro) ma cui manca un baricentro emotivo oltre che un’identità in grado di accreditare il progetto.

Voto: 5,5

martedì 8 novembre 2011

Nuit Blanche di Frederic Jardin

Due uomini in macchina indossano il passamontagna e a velocità sostenuta tagliano la strada a dei corrieri per strappare loro una borsa zeppa di cocaina purissima. Nelle peggiori città capita per regolare i conti o farsi le scarpe tra clan rivali. Non è il nostro caso perché i delinquenti alla guida dell’auto che attacca sono agenti di polizia corrotti. Non va tutto liscio per Vincent (Tomer Sisley) che si prende una coltellata all’addome da un balordo e nella colluttazione si fa smascherare dal figlioccio del boss Marciano (Serge Riaboukine), che per riavere la droga, rapisce suo figlio e dà inizio a una concitata “nuit blanche”. I giocatori in campo sono diversi: un altro sbirro venduto (Julienne Boisselier), una poliziotta intenzionata a scoprire le trame corrotte dei colleghi, il turco Feydek (Joey Starr) dalla faccia cattiva e il suo socio d’affari che rivendicano la partita di merce.

Il quarto lungometraggio di Frederic Jardin è un thriller denso di azione e colpi di scena, girato quasi interamente in un risto-dancing parigino, dove succede una baraonda: tutti ingannano tutti tra sparatorie, corpi a corpo, tattiche e lampi d’ironia (l’abito Dolce&Gabbana rovinato, le ripetute inquadrature sul garzone irregolare della cucina). Una scrittura sicuramente in palla ma che ogni tanto cede il passo a qualche eccesso. L’impressione è che si cerchi sempre il colpo a effetto, il contorsionismo narrativo con il quale spiazzare lo spettatore a ogni scena. Se da una parte la sceneggiatura gioca il ruolo robusto del pilastro, dall’altra si sgretola su se stessa trascurando ingenuamente alcuni dettagli non proprio marginali: tavoli e cucine del ristorante che funzionano a tarda notte, locale-fortino del boss sorvegliato da due sole persone, un gran trambusto per ore senza che nessuno intervenga o chiami le forze dell’ordine, personaggi “invincibili” duri a morire. È come se il regista avesse voluto costruire la tensione attraverso un patchwork d’idee e trovate spettacolari, a tratti anche geniali ma che alla lunga rischiano, al contrario, di allentare il pathos del racconto. Non è d’aiuto neanche la vicenda centrale del rapimento, edificata sul difficile rapporto con il figlio adolescente (Samy Seghir) che si evolverà nella maniera più classica e benevola.

Peccato, qualche taglio alla scrittura avrebbe alleggerito “Nuit Blanche” e reso meno sopra le righe un lavoro comunque interessante, girato con buon piglio e ben recitato; arricchito dalla fotografia di Tom Stern (da dieci anni in tutti i film di Clint Eastwood), opaca nelle sequenze degli inseguimenti e negli scontri a fuoco, brillante nelle riprese degli interni e quando combinata con la musica diegetica della pista da ballo. Una pellicola costata solo tre milioni di euro, presentata a Roma 2011 nella sezione fuori concorso “L’Altro Cinema | Extra” che ha tutte le caratteristiche per arrivare nelle sale e incontrare il gradimento del pubblico.

Voto: 6