Voto: 5
venerdì 26 novembre 2010
We Want Sex di Nigel Cole
Del problema riguardante la condizione delle donne - storicamente penalizzate nella struttura sociale - è rimasta soltanto qualche eco nella società industriale moderna: difficoltà a ritagliarsi ruoli di direzione aziendale e pressione psicologica subita da parte di alcuni malintenzionati che offrono lavoro in cambio di favori sessuali, sono le questioni sul tavolo dell'attualità. Ciò nonostante, i produttori Elizabeth Karlsen e Stephen Wooley hanno deciso di realizzare "We Want Sex", da un episodio di cronaca inglese del 1968: nella fabbrica-città Ford di Dagenham (55mila dipendenti, quasi tutti uomini) lavorano alla cucitura dei sedili anche 187 coraggiose signore che a un certo punto decidono di ribellarsi perché stanche di portare il fardello della discriminazione sessuale. Per il progetto è stato ingaggiato il regista Nigel Cole e formato un cast di tutto rispetto che annovera Sally Hawkins (attrice feticcio di Mike Leigh con il quale ha girato anche "La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky") nel ruolo della protagonista Rita O'Grady, Bob Hoskins (memorabili le sue interpretazioni in "Mona Lisa" e "Il viaggio di Felicia"), Miranda Richardson ("Il danno", "Il mistero di Sleepy Hollow", "Spider") e Rosamund Pike ("Orgoglio e pregiudizio" e in uscita a Gennaio con "La versione di Barney"). La storia, seppur di grande importanza storica per il riconoscimento dei diritti e la successiva legge ad hoc sulla parità di retribuzione, non ha grande presa in quanto appunto anacronistica e appartenente a un'epoca che percepiamo distante secoli da quello che tutti i giorni incontriamo negli uffici e nelle strade del mondo civilizzato. È altresì vero che il cinema attinge spesso dal passato; quindi, probabilmente è il modo in cui viene raccontata la vicenda a renderla melensa. Rita emerge dal suo alloggio popolare di provincia e viene designata leader a capo della protesta (spalleggiata dai sindacati) che mette in seria difficoltà i dirigenti Ford, costretti a negoziare per la prima volta degli accordi al femminile. La situazione però si inasprisce, si ferma la produzione e iniziano a fioccare i licenziamenti per i colleghi uomini (avvenimento – sciaguratamente – poco approfondito nella pellicola); questo provoca tensioni domestiche tra mariti e mogli e rappresenta una nuova minaccia al desiderio di uguaglianza delle operaie. Il film sembra virare verso territori più consoni alla realtà delle cose e per qualche minuto – quando entrano in gioco gli interessi economici nazionali – si ha l'illusione che si possa scacciare il prevedibile e dolciastro happy end, ma grazie all'intervento dell'energico Ministro del Lavoro Barbara Castle questo non accade. Non riescono né lo humour inglese (si ride poco, a dire il vero) né la bravura degli attori a tenere in piedi una narrazione che scivola più volte nel corso delle sue quasi due ore di durata: le gratuite e didascaliche sequenze a rimarcare lo slogan “We want respect” che riguardano il maestro autore di maltrattamenti con la bacchetta nei confronti dei suoi giovani alunni e l'amicizia con la colta moglie di un boss Ford trattata da quest'ultimo alla stregua di una colf, la goffa scena del pignoramento del frigorifero alla prima rata non pagata, il pretestuoso suicidio del marito di una operaia (era proprio necessario?) costituiscono una serie di indizi che rappresentano la prova di non riuscita. Insomma, we want better movies.