Succede che i casi e la natura spingano un uomo in territori inimmaginabili, costringendolo a meditare sulla vita e accostarsi alla morte in una situazione tra il paradossale e l’agghiacciante: rimanere bloccati più di cinque giorni in uno sperduto crepaccio del paradisiaco Canyonlands National Park nello Utah con una grossa roccia a immobilizzare, schiacciandoli senza scampo, mano e parte dell’avambraccio. Ѐ l’orribile storia capitata realmente a uno spericolato e solitario ventottenne americano di nome Aron Ralston (James Franco), che un fine settimana del 2003 si avventurò nella natura selvaggia alla volta del Blue John Canyon e vi restò – suo malgrado – centoventisette ore, con scarse risorse nutrizionali, obbligato ad andare oltre ogni umano limite per sopravvivere. Quest’avvenimento, da cui è tratto il libro “Between a Rock and a Hard Place”, ha colpito la sensibilità e la fantasia dell’inglese Danny Boyle, regista poliedrico e bravo a (ri)innovarsi come pochi, già arrivato al successo con “Trainspotting” e celebrato con gli otto Oscar di “The Millionaire”. Purtroppo per il malcapitato protagonista, “127 Ore” non è la fiaba milionaria di Jamal e, al contrario di Mumbai, lo scenario desertico del Canyon costruisce un silenzio ascetico, interrotto solo dalla musica diegetica delle cuffie e dall’incontro con due giovani turiste. In un simile paesaggio incontaminato e lontano dalla giungla d’asfalto della città, Aron è felice e si diverte un mondo anche quando si ribalta malamente con la sua mountain bike; allora ci si mette di traverso il fato e durante un trekking solitario tra le rocce dorate accade il grottesco incidente accennato in precedenza. Ѐ l’inizio dell’angosciante weekend di sofferenza per il ragazzo, intrappolato con lo zaino – fortunatamente – in spalla all’interno di una crepa larga novanta centimetri a fare lentamente i conti con la morte e a meditare sulla sua esistenza aiutato da una videocamera; episodio, autentico, che permette al protagonista di svelarsi e instaurare un dialogo con lo spettatore tramite i messaggi-testamento che lascia ai propri cari. Un aspetto assai interessante, che farà indignare gli integralisti della tensione drammatica nuda e cruda, ma che invece rappresenta con ogni probabilità una soluzione indovinata è quella di ricorrere, integrandola con i pensieri di Ralston, alla tecnica dello jump cut che consente di raccontare metaforicamente e in modo energico delle soporifere situazioni, permettendo di interrompere la staticità (forzata) dell’azione con inaspettate e beffarde arguzie. Ironia che, appunto, bilancia le mostruose atrocità di cui si è testimoni e crea due universi paralleli: uno tragico e l’altro farsesco; una contrapposizione organizzata, testimoniata anche dal singolare utilizzo di due direttori della fotografia (Anthony Dod Mantle ed Enrique Chediak) a sdoppiare e differenziare l’effetto visivo in base alle esigenze semantiche del regista. Nel perverso e frastornante gioco del destino, Aron le tenta tutte per sopravvivere e non perdere la lucidità dopo tante ore di disperata inerzia; l’unico appiglio con cui evitare la paura e la disperazione è abbracciare con piena coscienza il valore della vita. Peccato per qualche intrusione di troppo della (bella) colonna sonora che non è risparmiata neanche nella scena clou (inguardabile, da quanto è cruenta) e per quel finale troppo consolatorio che rischiano di penalizzare una pellicola affascinante, impreziosita dalla straordinaria performance di James Franco che si cala perfettamente nella parte turbando lo spettatore e costringendolo a sentire la polvere di quel dannato crepaccio.
Voto: 7