Voto: 7,5
lunedì 20 settembre 2010
Post Mortem di Pablo Larraìn
Post Cinema, verrebbe da dire rifacendosi al titolo dopo la proiezione dell’ultimo lavoro del cileno Pablo Larraìn, una pellicola a suo modo innovativa e certamente dura tanto quanto gli argomenti che affronta. Santiago del Cile, 1973; Mario Cornejo (l'ottimo Alfredo Castro, già protagonista di “Tony Manero”) lavora presso l’obitorio della città occupandosi di trascrivere in diretta i dettagli tecnici delle autopsie. La sua vita è così avvilente e monocorde che probabilmente per lo spettatore è più gradevole vederlo all’opera tra i cadaveri sezionati piuttosto che girovagare per la città o prepararsi la cena (uova al tegamino, il suo piatto ricorrente) con quello sguardo dannatamente mesto e infelice. Nel suddetto scenario al crisantemo s’invaghisce della vicina di appartamento Nancy (Antonia Zegers), una scheletrica ballerina di cabaret in crisi che, un po’ per solitudine un po’ per opportunismo un po’ per compassione, dona qualche distratta e caritatevole attenzione allo spasimante funereo. Sono gli anni del golpe di Pinochet e della caduta del Presidente Salvador Allende che l’undici settembre di quell’anno arriva alla camera mortuaria con la calotta cranica frantumata da una scarica di mitra. Un suicidio dice la versione ufficiale; un omicidio opera dei golpisti è la tesi che sembra sostenere anche il regista (in questo senso, il gigno sul volto di Mario durante l’autopsia è rappresentativo). Sono giorni di fuoco e le vittime innocenti si moltiplicano; Nancy, sopravvissuta a un’aggressione a domicilio di stampo totalitarista, si rifugia in un nascondiglio con l’aiuto di Cornejo che le fornisce i viveri e qualche passatempo per alimentare anima e corpo. Corpo il quale riveste un ruolo fondamentale: che sia carne da macello (cadaveri squartati), un oggetto del desiderio (quello della donna), un’allegoria militare della morte (un mucchio di uomini ammassati su un carrello come fossero “cose” prive di valore alcuno), è chiaro che Larraìn intenda scuotere emotivamente lo spettatore con questo espediente. Mai gratuitamente, però (come il pretestuoso Von Trier di “Antichrist”, per citare un caso limite): le scene più forti e stomachevoli sono non solo pertinenti allo stile del racconto ma soprattutto incisive nel trasmettere quel senso d’identificazione e alienante degrado fisico-intellettuale del protagonista. Per ottenere questo angosciante risultato e imporre il suo tipo di lettura, il regista fa uso di una luce dai toni cupi nelle scene ambientate a lavoro creando un opportuno clima algido e utilizza delle gradazioni di colore più sporco nei momenti ambientati nell’abitazione o negli esterni conferendo alle immagini un senso di forte disagio. I (pochi) movimenti di macchina sono una prelibatezza per cinefili (la soggettiva dell’abulica scena di sesso preceduta dalle lacrime o il montaggio audio-visivo durante la sequenza della doccia/colpo di stato, ad esempio), mentre i dialoghi, anch’essi essenziali, sono un concentrato di sarcasmo e paranoia, connessi al fatto politico e dissolti nella disgraziata quotidianità dell’uomo. Certo, allo spettatore è richiesto un piccolo sforzo per superare indenne gli ostacoli più inquietanti della rappresentazione e per decifrare la vicenda storica cogliendo i continui riferimenti con la messa in scena; chi vorrà farlo, difficilmente rimarrà deluso dalla visione di “Post Mortem” e ammirerà compiaciuto (e un po’ turbato) l’impeccabile epilogo, tra i più pessimisti e potenti che il cinema degli ultimi anni ricordi.