Chi è Johnny Marco? Una risposta a questo interrogativo la troviamo nella sequenza iniziale: quando vediamo la sua Ferrari “360 Modena”che gira a velocità sostenuta su un piatto percorso circolare è chiaro che ci troviamo di fronte a un uomo (un attore, più nello specifico) ricco, annoiato, capriccioso, sprezzante del pericolo, probabilmente solo. Lo scenario di riferimento è il dorato mondo di Hollywood; gli interni sono dello Chateau Marmont, una sorta di residence per star zeppo di aneddoti (la morte di John Belushi per overdose, ad esempio) e dove si sono alternati negli anni miti del cinema e della musica come James Dean e John Lennon, per fare due nomi quasi a caso.
L’autrice e co-produttrice della pellicola è Sofia Coppola, una delle più talentuose, discusse e nondimeno patinate registe americane, famosa oltre che per essere la figlia del grande Francis (che in questa occasione le ha prestato le lenti Zeiss utilizzate in “Rusty il selvaggio” nel 1983, per ottenere “una sensazione più romantica”) anche per l’osannato e fin troppo idolatrato “Lost in translation”. L’operazione si prefigge di mostrare uno sguardo sulla Los Angeles contemporanea e riflettere sulle vicende esistenziali del protagonista (Stephen Dorff) che vaga nel torpore senza una direzione precisa ma che dovrà dirigersi – appunto – “somewhere”.
La regista è in palla, sia sotto il profilo tecnico sia creativo. Nella prima parte della pellicola traccia con poche, clamorose sequenze (tutte rigorosamente a inquadratura fissa, come peraltro nel resto del lungometraggio) la situazione socio-culturale di riferimento e le caratteristiche principali di Johnny, che si divide tra intriganti pedinamenti al semaforo, esibizioni di lap dance a domicilio, party routinari con pennichella in zona erogena, bizzarri massaggi da “rimpacchettare” e grottesche conferenze stampa promozionali.
Un bel giorno arriva – spedita dall’ex moglie – sua figlia undicenne Cleo (Elle Fanning) e bisogna, almeno provvisoriamente, rivedere l’efferscente e trasgressivo leitmotiv quotidiano.
Immerso nelle musiche originali dei Phoenix e con l’ausilio (non sempre convincente) di pezzi di Foo Fighters, Gwen Stefani , Sebastien Tellier, e ottimamente contornato dallo stile sartoriale debitore a “Belli e dannati” di Gus Van Sant, giungiamo con il freno a mano (inventivo) tirato all’epilogo, forse un po’ sbiadito ma tutto sommato coerente con l’incipit e certamente meritevole di una visione per la lucidità con la quale ogni scena estrosa disegna una stupefacente, evanescente normalità.
Leone d’oro alla 67esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia.
Voto: 7