giovedì 29 luglio 2010

Il rifugio di François Ozon

Se volessimo descrivere il cinema di François Ozon con soli tre aggettivi, potremmo provare a definirlo: sensibile, trasgressivo, ambiguo. Classe 1967 ma con già undici film all’attivo, Ozon è tra i pochissimi registi della sua generazione a essere dotato di una creatività lampante unita a una capacità di esplorazione della condizione umana; uno stile inedito e personale che mostra la realtà in tutta la sua genuina brutalità.
Ne “Il rifugio” il tema centrale è quello della gravidanza, scoperta da Mousse (Isabelle Carré) subito dopo aver perso il compagno Louis (Melvil Poupaud) per un’overdose di eroina. Anche Mousse è tossicodipendente, quindi la famiglia alto borghese del defunto ragazzo rifugge l’idea che la donna(ccia) partorisca un discendente; ma lei è decisa a tenere il bambino e si rintana in una casa sul mare. Qualche tempo dopo è raggiunta da Paul (il cantautore Louis-Ronan Choisy, all’esordio nella recitazione), fratello di Louis, alla ricerca di se stesso e desideroso di stabilire un contatto con la cognata mancata. Paul è profondamente diverso da suo fratello: non si droga, è gay, gentile, emotivo, assai bello (contrapposizione esaltata attraverso il sonoro: chitarra elettrica vs. pianoforte). Probabilmente grazie a queste caratteristiche riesce a vincere l’iniziale aggressività e diffidenza di Mousse, che dietro la scorza ruvida e robusta nasconde una grande fragilità. Tra i due s’instaura un rapporto contrastante: dolce e crudo, diretto e velato, solidale ed egoista; s’intuisce, però, che pur essendo apparentemente agli antipodi hanno bisogno l’una dell’altro. Mousse si sente inadeguata nel ruolo di madre e con il bambino tenta disperatamente di riappropriarsi dell’amore tramite appunto il suo nobile frutto; la presenza di Paul è terapeutica, poiché la scuote dal torpore dell’isolamento e le offre qualche pezzo per ricomporre il suo puzzle esistenziale.

Ozon si conferma un fantasista del cinema raccontando con tocco poetico e sguardo disincantato un’altra storia toccante sulla vita e sui sentimenti, riflettendo sulla maternità e sull’idea – mitizzata – secondo la quale la propensione a essere mamma è qualcosa di ovvio e naturale per qualsiasi donna. Come di frequente, il regista utilizza la tematica gay per sviluppare il racconto e aggiunge un altro tassello al proprio “discorso omosessuale”, cifra stilistica che contraddistingue il suo lessico cinematografico.

Il cast artistico è convincente: Isabelle Carré – che ha girato le scene realmente incinta – in stato di grazia nel suo trucco pesante e tenera nelle inquadrature in stile documentaristico del pancione (affascinante la sequenza del bagno), Louis-Ronan Choisy perfetto nella sua parte da ragazzo affettuoso, mite e impacciato, Melvil Poupaud che nei suoi dieci minuti di presenza regala un’interpretazione di un realismo strabiliante.
Tuttavia, nei lavori di Ozon c’è sempre qualche vizio di forma e anche in questo caso le forzature narrative (perché Paul piomba a casa di Mousse?) e gli stereotipi (il grande desiderio di paternità dei gay) non mancano. Ciò nonostante, “Il rifugio” è un film da non perdere per tutti coloro che amano un certo cinema impegnato e vogliono entrare in contatto con l’anticonformismo e la freschezza del linguaggio di uno dei più talentuosi under 45 in circolazione.

Voto: 7
http://filmup.leonardo.it/ilrifugio.htm

martedì 20 luglio 2010

Letters to Juliet di Gary Winick

Love Power. Questo slogan potrebbe sintetizzare il messaggio del nuovo film del regista newyorkese Gary Winick, una commedia sentimentale ambientata in Italia che trae spunto da quella che è probabilmente la rappresentazione sull’amore più famosa di tutti i tempi: Romeo e Giulietta di William Shakespeare. Sophie (Amanda Seyfried) e Victor (Gael Garcìa Bernal) sono fidanzati da un anno quando decidono di lasciare per qualche settimana gli Stati Uniti e raggiungere Verona, meta romantica per eccellenza e zona geografica che offre diverse opportunità culinarie all’uomo che di mestiere fa lo chef-imprenditore. Durante una visita nel famoso cortile di Giulietta Capuleti, Sophie scopre una vecchissima lettera scritta cinquant’anni prima da Claire (Vanessa Redgrave) a un giovane italiano di nome Lorenzo (Franco Nero)*; tramite l’associazione “club di Giulietta”, decide di rispondere e viene premiata dalla fortuna quando dopo circa una settimana si presenta a Verona una nonna inglese accompagnata da suo nipote Charlie (Christopher Egan), desiderosa di rintracciare quel ragazzino che alla fine degli anni 50 le faceva battere forte il cuore. Intanto Victor sembra amare più il cibo della dolce compagna e invece di trascorrere la vacanza romantica che tutte le coppie sognano, si dedica completamente alla ricerca di fornitori (formaggi, tartufi, vino e altre prelibatezze) per il suo ristorante e trotterella da una località all’altra senza tregua. In questo scenario per lei un po’ desolato, Sophie, che è oltre a essere romantica è una scrittrice, chiede a Claire se può scrivere un racconto sulla sua storia e s’imbarca alla ricerca di uno dei tanti “Lorenzo Bartolini” in un viaggio che oltre al capoluogo veneto tocca alcune location affascinanti della provincia ed esplora le terre toscane tra Siena e Montalcino. La distanza con il fidanzato, l’avventura amorosa della donna inglese e l’amicizia con Charlie la aiuteranno a riflettere circa il suo rapporto e apriranno per Sophie nuovi orizzonti sentimentali. Una sorta di road-movie caramelloso senza grandi aspirazioni artistiche il cui andamento narrativo si capisce prima che il film inizi, con qualche frivolezza di troppo, un uso delle musiche stucchevole e alcune forzature nella sceneggiatura opera di José Rivera (nomination per l’Oscar con I diari della motocicletta) e Tim Sullivan. La confezione, però, è buona, soprattutto grazie alla spettacolare ambientazione (un morbido esempio di location product placement; chi ha visto In Bruges – La coscienza dell’assassino ha compreso perfettamente a cosa alludiamo), i dialoghi sono abbastanza divertenti e l’atmosfera è un po’ quella da fiaba, sempre, terribilmente gradita. Letters to Juliet è un film per il quale le ragazze romantiche stravederanno e allo stesso tempo gli estremisti del cinema d’autore potrebbero indignarsi; chi scrive, si pone circa nel mezzo e per concludere si affida alle parole di Honoré de Balzac che diceva “c’è tutta una vita in un’ora d’amore”, facendo notare che in questa pellicola le “ore d’amore” (e di passatempo) sono quasi due.

*Nella realtà, Vanessa Redgrave e Franco Nero hanno avuto una relazione e un figlio nel 1969 ma si sono separati poco dopo; ritrovatisi a distanza di trentacinque anni, hanno deciso di coronare la loro seconda unione sposandosi nel 2006.


voto 5,5

http://filmup.leonardo.it/letterstojuliet.htm



mercoledì 14 luglio 2010

La scomparsa di Alice Creed di J Blakeson

Come Billy Wilder si ispirò a una sequenza di Breve incontro (David Lean, 1945) per sviluppare la sceneggiatura del capolavoro L’appartamento, il giovane inglese J Blakeson ha tratto spunto da una scena all’interno di Ransom – Il Riscatto (Ron Howard, 1996) per firmare il suo esordio La scomparsa di Alice Creed; un thriller a costo ridotto con tre soli attori e una location che caratterizza 4/5 della sua durata.

Vic (Eddie Marsan) e Danny (Martin Compston) si sono conosciuti in galera e hanno preparato un piano criminale: rapire Alice Creed (Gemma Arterton), figlia di un facoltoso uomo d’affari cui per il rilascio intendono chiedere due milioni di sterline; altrimenti la uccideranno senza scrupoli.

L’inizio della pellicola è serrato, con i due uomini che preparano meticolosamente un appartamento-prigione, sequestrano la vittima scaraventadola in un vecchio furgone e la immobilizzano in stile sadomaso a un grande letto dentro una stanza buia.

Rifacendosi all’atmosfera di alcune grandi pellicole del passato come Shining (Stanley Kubrick, 1980) e Repulsion (Roman Polanski, 1965), il regista – autore anche della sceneggiatura – vuole infondere un profondo senso di angoscia nello spettatore, rinchiudendolo tra i muri della casa insieme ai protagonisti e mettendolo in connessione con i loro tratti psicologici, cercando nondimeno di trasmettere l’intensità e il ritmo adrenalinico distintivi del genere cinematografico. Un’operazione che non sempre riesce in modo efficace poiché i profili comportamentali di Vic (nevrotico e severo come il sergente istruttore di Full Metal Jacket) e Danny (che appare smidollato e succube del socio) risultano un po’ esasperati rendendo il loro rapporto surreale e il racconto non privo di forzature narrative (emblematiche in questo senso le sequenze riguardanti il bossolo: prima dimenticato ingenuamente per terra, poi riguadagnato con un numero da circo, dopodiché inghiottito per due volte come un’aspirina). Inoltre, pare che tra i due uomini esista anche un legame passionale, ma è un aspetto che risalta qua e là senza un adeguato approfondimento. Sembra quasi che Blakeson abbia ecceduto con la creatività in fase di scrittura arricchendo il copione con scene e dialoghi certamente interessanti, ma allo stesso tempo un po’ sconclusionati e non perfettamente funzionali al racconto.

Il personaggio che probabilmente esce meglio dal terzetto è Alice Creed, interpretato da una Gemma Arterton (ammirevolmente) brutalizzata per l’occasione e la cui parte si evolve da vittima vulnerabile a donna coraggiosa e fine stratega.

In definitiva, un’opera prima di belle speranze, che senza le sopra citate incongruenze e cadute di tono poteva probabilmente candidarsi al titolo di miglior esordio dell’anno; allo stato attuale, spiace dirlo, la sensazione di un’occasione persa è forte. Tuttavia, gli appassionati del thriller troveranno sufficiente tensione e imprevedibilità per non lasciarselo sfuggire.


voto 5,5


giovedì 8 luglio 2010

Toy Story 3 - La grande fuga di Lee Unkrich

Il battito cardiaco accelera, la respirazione è irregolare, le pupille si dilatano. Sì certo, sono le emozioni più classiche da “innamoramento”, ma non solo; la psicologia moderna dovrebbe includere come potenziale origine di questi sintomi anche un nuovo, straordinario fenomeno: i lungometraggi realizzati dalla Pixar (Animation Studios), la casa cinematografica di Steve Jobs specializzata in tecnologie grafiche innovative. Una saga dell’animazione in crescendo che ha dato alla luce autentici gioielli come Monsters & Co., Ratatouille e WALL•E per citarne qualcuno, cominciata proprio con Toy Story – Il mondo dei giocattoli, che nel 1995 modificò sensibilmente le tradizionali tecniche di lavorazione e rivoluzionò il linguaggio cinematrografico dinseyano. Dopo Toy Story 2 – Woody e Buzz alla riscossa del 1999, ecco arrivare a distanza di quasi undici anni il terzo episodio Toy Story 3 – La grande fuga, dove ritroviamo il protagonista umano Andy ormai teenager in procinto di cominciare il college e i celebri giocattoli alle prese con la paura di essere abbandonati perché inutili; a causa di un equivoco, i prodigiosi balocchi invece che in soffitta si ritroveranno al Sunnyside, un asilo “amministrato” dall’orsacchiotto rosa Lotso che appare come un oasi felice ma che ben presto diverrà una vera e propria prigione. Da qui, grazie all’intraprendenza e alla testardaggine del popolare cowboy Woody, gli amici di plastica pianificheranno la “grande fuga”. La sceneggiatura, scritta da Michael Arndt (premio oscar per Little Miss Sunshine), è stata sviluppata con il supporto in chiave aneddotica del regista Lee Unkrich (che ha co-diretto il secondo episodio e Alla ricerca di Nemo), John Lasseter (produttore esecutivo e figura chiave dell’animazione moderna) e dal team di tecnici capitanato da Guido Quaroni; la compattezza e la scrupolosità nella cura dei dettagli che caratterizzano l’ultima e le altre pellicole Pixar sono anche frutto di questo approccio “totale” delle varie figure che all’interno della lavorazione arricchiscono la storia con esperienze e impressioni intime promuovendo un risultato pirotecnico laddove comicità, azione e sentimenti si intersecano in modo esemplare e vanno a smontare il pregiudizio che inquadra l’animazione come un genere cinematografico rivolto solo ai bambini. Anche in Toy Story 3, l’espediente sotto la veste infantile del gioco cela delle tematiche più profonde e complesse evolvendo naturalmente i discorsi affrontati nei primi due capitoli e aprendo a un sottotesto che offre allo spettatore svariate chiavi di lettura: la crisi di valori morali della società moderna con la crescita dei figli e l’alienazione della famiglia (Andy che ormai grande decide di abbandonare i vecchi giocattoli/genitori), la dittatura politica con l’emarginazione e la punizione per i dissidenti (in riferimento al “sistema” del Sunnyside), il principio dell’amicizia (tema ricorrente e centrale della storia), la scarsa virilità e la fragilità dell’uomo contemporaneo (si veda qualche riga più in basso) e la riabilitazione sociale dell’individuo (con la presa di coscienza e la riscoperta della felicità nella parte conclusiva). Non mancano le novità rispetto al 1999; a cominciare dall’introduzione di nuovi personaggi, tra cui spiccano, oltre al già citato Lotso Grandi Abbracci, il bambolotto Bimbo, la piovra Stretch, il bizzarro Chunk, il soldato insettoide Twitch e – udite udite – il mitico Ken (un po’ effeminato e particolarmente insicuro) che ritroverà l’amata Barbie con la quale potrà esibire degnamente la “casa dei sogni” e gli innumerevoli abiti limited edition (esilarante la scena della sfilata). Ovviamente, continuano a brillare le stelle dei vecchi amici: il ranger spaziale Buzz Lightyear, la cowgirl Jessie, Mr. e Mrs. Potato, il maialino Hamm, il dinosauro Rex, il cane Slinky, Bullseye, i pupazzetti Alieni e i già menzionati Andy, Woody e Barbie; che si rianimano attraverso le voci italiane di Fabrizio Frizzi, Massimo Dapporto, Fabio De Luigi, Claudia Gerini, Riccardo Garrone, Giorgio Faletti, Ilaria Stagni, Renato Cecchetto, Angelo Nicotra, Cristina Noci, Carlo Valli, Piero Tiberi e Gerry Scotti (Telefono Chiacchierone). L’innovazione principale, frutto dell’importante progresso tecnologico degli ultimi anni, è rappresentata dall’utilizzo sapiente della tecnica 3D che – a partire dalla suggestiva sequenza onirica iniziale – conferisce profondità e dinamicità al racconto favorendo la definizione e la perfetta tonalità delle immagini; un uso modulato del tridimensionale che risulta asciutto e sempre funzionale alla messa in scena. Immerso nelle musiche dello specialista Randy Newman, tra una citazione e l’altra (in una sola immagine vengono omaggiati il maestro del genere Hayao Miyazaki con il cameo di Totoro e il kubrickiano Shining con il 237 in relazione alla nota camera degli orrori), Toy Story 3 si conferma in grado di scatenare una tempesta di sensazioni e riproduce un caleidoscopico viaggio all’interno di un mondo che attraverso il punto di vista dei giocattoli ci mostra le problematicità degli adulti con leggerezza e sguardo acuto al contempo, regalando allo spettatore di qualsiasi età uno spettacolo memorabile per intesità, divertimento e (tu chiamale se vuoi) emozioni.

voto 8

sabato 3 luglio 2010

Howl di Rob Epstein e Jeffrey Friedman

“Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte da pazzia, morir di fame isteriche nude strascicarsi per strade negre all’alba in cerca di una pera di furia”. Sono questi i versi che Allen Ginsberg “urlava” per la prima volta nel 1955 nella Six Gallery di San Francisco; sono questi versi quelli che aprono l’opera che sarebbe poi divenuta il poema cardine della così detta Beat Generation: Howl, appunto. Un testo che narra con stile inedito le molteplici esperienze dell’autore (l’omosessualità e l’amore nei confronti di Peter Orlovsky), i rapporti e le conversazioni con gli amici (tra cui diversi artisti, come Jack Kerouac e William Burroughs), il dissenso verso lo Stato americano (denominato “Moloch”), lo sviluppo di un movimento di scrittori dissidenti che voleva cambiare il mondo. Proprio questa vivacità intellettuale, unita a un massiccio uso di droghe allucinogene come il peyote, genererà le rime che un paio d’anni più tardi saranno censurate e portate in aula di tribunale per oscenità nella persona dell’editore Lawrence Ferlinghetti. Il lavoro degli esperti documentaristi Rob Epstein e Jeffrey Friedman prende questa direzione, cercando di ricostruire il momento topico di fermento socio-culturale e riflettere sulla libertà di espressione e sul ruolo dell’artista nella comunità. La narrazione avviene attraverso tre momenti distinti ma uniti dallo stesso filo della riabilitazione professionale del giovane Ginsberg (James Franco, perfettamente a suo agio, che offre un’interpretazione credibile): gli aneddoti di vita con le interviste rimaneggiate, il processo del 1957 e lo stesso poema fuso con l’animazione di alcuni graphic novelists. Ed è probabilmente questo dissolversi dei versi nei disegni uno degli aspetti più interessanti di Howl; una rielaborazione animata del quadro sovversivo di San Francisco, della visionarietà del poeta, e di tutto il contesto appartentente all’immaginario “beat”, come la ribellione o il battito Bop (uno stile del jazz, ndr) che ritroviamo nella musicalità delle rime. Anche il processo - il cui dibattito è riportato fedelmente - si ritaglia uno spazio discreto e adeguato alla rappresentazione senza cadere nella retorica dello “show” e ci mostra le dissertazioni tra gli avvocati e i vari critici letterari chiamati in causa per esprimere il loro giudizio sull’opera controversa. Quanto al suo contenuto: be’, non meraviglia che all’epoca ne sia stato messo in discussione il valore culturale poiché il poema è effettivamente audace nella sua esposizione stilistica e utilizza un linguaggio sfrontato dove la componente (omo)sessuale appare predominante; oltre a questo aspetto, di Howl colpisce la particolare energia, il fascino psichedelico e la grande acutezza di osservazione che conferiscono all’opera una modernità insita e longeva. Il discorso affrontato da Epstein e Friedman, sembra allontanarsi dalla tematica omosessuale assoluta protagonista dei loro lavori più famosi, ma ne guadagna invece l’essenza proibizionista e rivoluzionaria approfondendo la riflessione su argomenti come il divieto di manifestare la propria identità e ragionando su cosa poteva essere definito osceno allora come oggi. Forse, in alcuni tratti si ha la sensazione di assistere a un freddo esercizio di stile a causa di un uso quasi autoreferenziale della poesia e dalla scarsa interazione tra i personaggi; ciò nonostante Howl rimane una pellicola ricercata con la quale ci si può riconciliare bene verso il cinema dopo l’obbligato distacco estivo (esce nelle sale il 27 agosto, ndr). In attesa di catapultarvi nelle immagini del film e nel suo linguaggio inusitato, potete recuperare Urlo e Kaddish (Allen Ginsberg, Il Saggiatore) e leggerne qualche pezzo in vacanza, quando non siete in acqua o a crogiolarvi al sole. Sorseggiare prima un mojito potrebbe favorirne l’appropriata comprensione.

voto 6,5