Coordinate: Francia, Parigi; Mia Hansen-Løve (regista-sceneggiatrice); un produttore cinematografico; un telefono cellulare; la famiglia; un fallimento professionale; la dignità; i ricordi; Robert Bresson; Yasujiro Ozu. Aggiungete un paio di ingredienti spoiler e mischiate: arriva nelle sale italiane "Il padre dei miei figli", pellicola vincitrice del premio speciale della giuria "Un Certain Regard" al Festival di Cannes 2009 e osannato dalla quasi totalità della critica internazionale.
La firma è, appunto, della precoce (classe 1981) Mia Hansen-Løve, già attrice per Olivier Assayas ed ex recensore per la prestigiosa rivista Cahiers du cinéma, che si ispira apertamente al personaggio del produttore francese Humbert Balsan e mette in scena una storia drammatica e delicata sulla vita.
Grégoire Canvel (un ottimo Louis-Do de Lencquesaing) ama il cinema e con la sua Moon Films finanzia le produzioni d’essai; è un uomo elegante e sempre di corsa che trascorre le sue giornate risolvendo grane al cellulare e non ha tempo neanche di rispettare le più comuni norme del codice stradale. Gli scorci di quotidianità che gli restano li passa con sua moglie Sylvia (Chiara Caselli) e con le figlie; con loro si mostra affabile e si gode qualche scampolo di felicità, come ci viene mostrato nella scena domestica, quando le figliolette Valentine e Billie improvvisano una deliziosa gag che culmina con le "sculacciate" del papà: una delle sequenze di racconto famigliare più emozionanti e intense degli ultimi anni.
Quella di Grégoire, però, è solo una maschera indossata per nascondere le preoccupazioni legate ai problemi finanziari che, quasi sottovoce e in un’aura di lieve mistero, vanno via via palesandosi; prima di scoprire definitivamente le carte, Hansen-Løve ci mostra la bella sequenza del viaggio in Italia, durante la quale si rende probabilmente omaggio – narrando di templari e rovine – a "Lancillotto e Ginevra" di Bresson, nel quale recitò Balsan e la cui locandina campeggia con vanto nell’ufficio del produttore.
Al rientro dalle vacanze, i colori luminosi della gioia e della contentezza sbiadiscono; Grégoire è sempre più sommerso dai debiti e per la Moon Films si paventa una ingloriosa chiusura. Come gestirà l’emergenza il produttore? Accetterà il sostegno economico dei parenti? Purtroppo non avremo nessuna risposta perché l’uomo – con sorpresa, a meno di metà film – esce di scena (una soluzione, quella della regista, di grande coraggio e apprezzabile originalità narrativa).
Ne prendono il testimone le figlie e quella moglie che, a leggere il titolo, dovrebbe fornire il suo punto di vista di madre alla storia.
Invece a emergere è la primogenita Clémence (Alice de Lencquesaing), brava, ma il cui sviluppo del personaggio appesantisce il racconto e sposta il baricentro emotivo del film con l’introduzione di altri temi tutto sommato trascurabilissimi. Sylvia intanto prende le redini della società battendosi per evitare la sempre più probabile liquidazione e si occupa con orgoglio della prole: anche queste fasi, seppur notevoli per intensità, risentono di alcune lungaggini.
La regista però, va evidenziato, è perfettamente a suo agio con la macchina da presa: riprende gli attori ottenendo un risultato eccelso in termini di spontaneità e armonia del cast, filma Parigi con una luce sobria e autentica, caratterizza il suo stile utilizzando – senza eccederne – la chiave simbolica (la scala oltre il muro, il black-out a tavola) e arricchisce la rappresentazione con sfumature psicologiche che richiamano l'impronta "spirituale" del regista giapponese Ozu.
In definitiva, il film parte forte, sfiora il cuore e fa riflettere, sembra davvero possa evolversi come il capolavoro annunciato, ma poi dà come l’impressione di accartocciarsi su sé stesso, trasferendo una sensazione strana, come di parziale incompiutezza.
Il finale è intriso di malinconia: un condensato di ricordi, dolore, rimorsi; ma sulle note amabili di "Que sera sera" di Doris Day apre alla speranza e ci suggerisce che, dopo tutto, c’est la vie.
voto 6,5