Manuel Rodrìguez Sànchez, meglio conosciuto come “Manolete”, è stato un celebre torero spagnolo degli anni 40, famoso anche per aver perso la vita a soli trent’anni successivamente a una cornata ricevuta durante uno di quegli spettacoli popolari che corrispondono al nome di Corrida, che alcuni definiscono barbarie mentre secondo altri sarebbero una forma d’arte, come sosteneva pure Hemingway che nel suo “Morte nel pomeriggio” descriveva l’uccisione del toro come una rappresentazione del sublime.
La parabola di un matador che infiammava le folle? Un’analisi sul senso della vita e della morte? Un racconto ad effetto sul tradizionale rito ispanico? Niente di tutto questo, purtroppo; ma, come ci tiene a precisare il regista Menno Meyjes (sceneggiatore di “Indiana Jones e l’ultima crociata”e “Il colore viola”), il suo terzo film “è una storia d’amore”.
La pellicola – distribuita in Italia oggi, ma realizzata nel 2007 – è incentrata sulla passionale relazione tra il malinconico e timido Manolete (interpretato da un Adrien Brody dalla somiglianza quasi inquietante con il vero torero) e la bella e maledetta Lupe Sino (Penelope Cruz); l’inizio dei suoi guai. Il virile matador è una solida icona ai tempi della disastrata Spagna neo-franchista ma si scioglie come neve al sole quando incontra l’affascinante donna. Un comportamento che crea stupore e imbarazzo nell’ambiente delle arene, che giudica inappropriato il sentimentalismo e l’asservimento nei confronti di Lupe; a quanto pare, solo un’opportunista che approfitta del denaro e delle conoscenze influenti del suo amante.
Il meccanismo narrativo della vicenda è costruito su un – per niente convincente – racconto diviso in due piani temporali: da una parte i bei ricordi amorosi di Manolete e dall’altra i suoi ultimi giorni di vita, fino al tragico 28 agosto 1947 nella Plaza de Toros di Linares. Un alternarsi di brevi scene senz’anima e prive di un opportuno approfondimento psicologico che chiarisca le dinamiche interiori dei personaggi, con l’aggravante di alcuni momenti così illogici da sfiorare il grottesco, come quando Lupe, in tribuna per una corrida, chiacchiera e amoreggia spensierata con un corteggiatore guardando negli occhi il gelosissimo compagno, impegnato in quel frangente a giocarsi la vita contro un possente animale da cinquecento chili.
Meyjes, tuttavia, si difende con la macchina da presa e dirige discretamente, pur con qualche eccesso didascalico come il montaggio alternato nella parte finale della donna che cerca di raggiungere in tempo l’arena dove si sta esibendo El Monstruo (così veniva anche soprannominato Manolete).
Se volessimo infierire, potremmo anche citare la modesta colonna sonora e puntare il dito sull’infelice decisione di girare le scene (nella pellicola originale, quella da noi visionata) in inglese invece di utilizzare naturalmente lo spagnolo, così da enfatizzare e trasmettere allo spettatore quella carica di energia ed esaltazione propria della corrida de toros.
Buoni, invece, la fotografia di Robert Yeoman (direttore di fiducia di Wes Anderson) e i costumi di Sonia Grande (“Mare Dentro”, “Parla con lei”). L’elevato valore artistico della coppia di attori protagonisti è fuor di dubbio, ma anche per questo si poteva, anzi doveva, fare di più.
“Manolete”, fra mito e passione, c’è solo la noia.
Voto: 4