giovedì 10 marzo 2011

I ragazzi stanno bene di Lisa Cholodenko

Il mondo è cambiato: dobbiamo abituarci a riconsiderare alcuni di quelli che pensavamo essere dei pilastri sociali. Il concetto occidentale di famiglia fondata sul matrimonio e sull’unione tra uomo e donna è diventato obsoleto nella società postmoderna. L’emancipazione omosessuale – più timida nel nostro paese – ha fatto sì che in molte città del mondo civilizzato si consumino apertamente delle durature e legalmente convalidate relazioni omosex. “I ragazzi stanno bene” di Lisa Cholodenko intende dunque focalizzarsi sui sentimenti degli esseri umani e non vuole mandare, come alcuni potrebbero pensare, un messaggio moralistico a favore dei matrimoni gay. La storia in questione è quella di Nic (Annette Bening) e Jules (Julianne Moore), due lesbiche sulla cinquantina, che conducono amorevolmente una vita serena con tanto di figli adolescenti (Joni e Laser) avuti grazie all’inseminazione artificiale. Il padre biologico è lo scapolone Paul (Mark Ruffalo), rintracciato dai ragazzi e piombato inaspettatamente nelle vite di tutti a sconvolgerne la quotidianità e condizionarne le prospettive. Paul ha un forte ascendente su Joni (Mia Wasikowska) e abbastanza successo con Laser (Josh Hutcherson), ma è mal digerito dalla grintosa Nic che è quella che a casa porta i pantaloni e quindi vive il rapporto con l’uomo in maniera ostile paventando un confronto diretto. Jules invece, architetto mancato riciclatasi come progettista di esterni, accoglie con entusiasmo l’offerta che le fa Paul, stuzzicato sessualmente da quella donna sposata e “diversa” con la quale condivide – senza averla mai sfiorata – un figlio. La regista lascia intendere chiaramente che non ci sono differenze nei rapporti sentimentali e nella vita il percorso è comune per tutti. Dà per scontato che nessuno si impressioni vedendo due donne a letto che fanno petting, ma allo stesso tempo con occhi sinceri ci mostra le contraddizioni e i sensi di colpa delle mamme quando cercano di far confessare al figlio (estraneo ai fatti) la propria omosessualità. Condizione questa, che è utilizzata per tracciare le coordinate che permettono di individuare la nuova area gay, nel cui solco s’inserisce la narrazione, in perfetto equilibrio tra retorica lesbo-chic e analisi sociologica, rileggendo in chiave moderna una tematica divenuta fuorviante perché abusata e compassionevole. La famiglia descritta con lucidità – in ventuno giorni di riprese – dalla Cholodenko è come tutte le altre: in continua evoluzione e scandita da luci e ombre nel rapporto di coppia. La scelta di utilizzare due donne “padre” potrebbe apparire come un artificio furbetto per richiamare un pubblico alla moda, invece sostiene strutturalmente il discorso corale sulla vita cui tutti gli eccellenti interpreti prendono parte e che tocca la sua vetta nella sequenza della cena a casa di Paul; momento di massima tensione in cui l’emozione è servita e i nodi vengono (letteralmente) al pettine. Sullo sfondo si muove il personaggio di Mark Ruffalo, sciupafemmine redento e improbabile papà, che decide di virare (con troppa disinvoltura?) dai party pieni di belle ragazze verso un modello di famiglia più tradizionale, abbagliato dall’intensa e agrodolce sensazione di divenire genitore ex abrupto. I due figli condivisi Joni e Laser non si limitano al ruolo di comparsa ma contribuiscono con la crescita dei loro personaggi a raccontare la condizione anomala in cui vivono e la naturale mutazione generazionale, in particolare la timida diciottenne raffigura empaticamente la propria transitoria fase evolutiva. Non ingannino la leggerezza narrativa e la patina divertente perché dietro di essi si celano i grandi temi della vita, come l’amore e quell’incondizionato bisogno della famiglia che ci suggerisce nel finale una Joni smarrita all’arrivo al college; simbolico crocevia in cui tutti colgono un dettaglio prezioso, compreso lo spettatore che in questo bell’esempio di cinema attuale può riflettere sul concetto di nucleo familiare e sull’annosa questione omofobia.


Voto: 7