sabato 5 giugno 2010

I gatti persiani di Bahman Ghobadi

Iran 2009. Nella capitale Teheran, i gatti sono costretti a nascondersi nelle abitazioni e non possono palesarsi liberamente al mondo esterno per non incappare nell’ipocrita e ottusa morsa del proibizionismo nazionale. Un lungometraggio sui felini? Evidentemente no, ma come si può intuire i gatti persiani non sono altri che i giovani iraniani e questo film, con grande energia e notevole coraggio, lancia un urlo di protesta nel deserto della legittimità morale della più popolosa città dell’Iran.
L’autore della denuncia è il regista kurdo-iraniano Bahaman Ghobadi che, stanco di attendere invano i permessi di rito per realizzare un progetto sulla pena di morte intitolato “60 secondi su di noi”, acquista una camera digitale (tutte le attrezzature 35mm appartengono allo Stato e per affittarle bisogna avere un’autorizzazione a cinematografare, ndr) e comincia a provarla filmando clandestinamente un gruppo di musicisti indipendenti; questa la stravagante genesi dell’idea alla base de “I gatti persiani”, che sarà poi girato - giocoforza - a tempo di record in meno di venti giorni.
Motore dell’iniziativa e oggetto del racconto è la musica, nella sua accezione più modaiola: l’indie rock, come è denominato (non solo) nella pellicola; ovvero una macro-corrente di musicisti indipendenti, con all’interno i generi più disparati. Non è un caso che Ghobadi abbia cercato riscatto nella musica, in quanto è da poco diventato un cantante (appare in questa veste anche in una scena all’inizio del film, ndr) e proprio durante le registrazioni senza licenza del suo primo album ha incontrato in studio Ashkan e Negar, il ragazzo e la ragazza protagonisti della pellicola, due artisti autentici della scena underground locale, che hanno un solo desiderio: fare musica. Facile, si potrebbe pensare, ma non in territorio islamico, dove la musica viene giudicata impura – in quanto fonte di allegria – e per chi intende “peccare” a suon di basso e batteria non resta che infrattarsi o meditare una fuga all’estero.
E’ proprio quello che decidono di fare Ashkan e Negar, che per il rock sono pronti a rischiare tutto quanto posseggono. Servono passaporti e visti, allora si rivolgono ad un istrionico commerciante di DVD pirata di nome Nader che – per amor dell’arte – li aiuta indirizzandoli da un esperto falsario, certo di recuperare quei documenti indispensabili per emigrare a Londra, dove “i gatti” vogliono suonare davanti ad un pubblico libero e lontano dal bieco sguardo del Regime iraniano.
Intanto, per riuscirci, devono anche mettere in piedi una band che si rispetti; è qui che Ghobadi filma un maxi-videoclip dove, tra tetti, cantine, stalle e sgabuzzini vari, si avvicendano dieci band per 45 minuti di alternative-rock, pop, metal, world-music e rap dal testo graffiante, scoprendo il velo (di vergogna) che avvolge, offuscandola, una Teheran in fermento sociale e culturale.
“I gatti persiani” è probabilmente la pellicola iraniana più “giovane” e spiazzante di sempre, distante dal classico stile caratterizzato da villaggi abbandonati e intellettualità a là Kiarostami; al contrario, Ghobadi ci mostra con la sua digitale una Teheran metropolitana e vitale, dove si parla un linguaggio moderno e la vita trascorre scandita da un senso di repressione manifesto.

Il grande merito del regista è soprattutto questo, perché, al di là di qualche episodio memorabile (Nader, che per evitare una multa salata, inscena una difesa tragicomica o l’incontro dal falsificatore di passaporti), la rappresentazione funziona in parte e contiene – presumibilmente per via delle riprese eseguite in un clima estremo e alla velocità della luce – qualche passaggio un po’ gratuito e poco convincente, compreso il finale, giustamente amaro, ma telefonato e abbastanza debole.

Tuttavia, il film ha – per tutti – un alto valore simbolico e significa, per i ragazzi iraniani, un piccolissimo ma importante passo in avanti verso un futuro meno sottomesso e un epico inno (rock) alla vita.


*Durante le riprese, Ghobadi e la sua troupe sono stati fermati dalle forze dell’ordine per ben due volte (rilasciati dopo aver corrotto le guardie con dei DVD), mentre il regista iraniano è stato arrestato e imprigionato per sette giorni al rientro da Cannes 2009 (dopo aver ritirato un premio nella sezione “Un Certain Regard”).

voto 7