lunedì 28 giugno 2010

Howl: intervista a Jeffrey Friedman



L’americano Jeffrey Friedman, classe 1951, è il co-regista di Howl, pellicola dedicata all’omonimo poema “beat” di Allen Ginsberg da cui scaturiscono riflessioni riguardo i limiti della libertà di espressione e il ruolo sociale dell’artista.
Con Rob Epstein, forma una coppia quasi leggendaria nell’ambito della realizzazione di documentari: registi, sceneggiatori e produttori molto stimati in patria, vantano due Oscar, molteplici Emmy Awards, tre Peabody Awards e una Guggenheim Fellowship. Tra i loro lavori più riusciti ricordiamo: Lo schermo velato (storia dei personaggi gay che hanno animato lo scenario hollywoodiano), Paragraph 175 (sulla persecuzione nazista nei confronti degli omosessuali), Common Threads (che racconta i primi dieci anni dall’avvento dell’AIDS e della relativa risposta del governo).


La tematica omosessuale, affrontata dal punto di vista sociologico, è assoluta protagonista dei suoi precedenti lavori; qual è la ragione più profonda di questa precisa direzione artistica?
Non so indicare esattamente una ragione; in effetti gran parte dei temi che io e Rob scegliamo per i nostri film, che parlano comunque di tematiche universali, hanno una connotazione omosessuale. Non so bene il motivo, forse dipende dal fatto che siamo a San Francisco, in un contesto che certamente favorisce una riflessione su questi argomenti.

A proposito di omosessualità; l’omofobia oggi rappresenta un problema sociale importante che innesca – come purtroppo abbiamo avuto modo di constatare ultimamente in Italia – con una certa frequenza scellerati episodi di violenza. Come pensa si possa combattere la questione? Ritiene che la “potenza espressiva” del cinema possa essere uno strumento efficace in questo senso?
Io spero che il cinema possa contribuire a questa lotta, ma tuttavia non mi illudo che possa cambiare il mondo. Di fatto la maggiorparte degli atteggiamenti che abbiamo sono una conseguenza del contatto umano con le persone mentre l’omosessualità è stata repressa così a lungo nel tempo, costretta quindi a nascondersi e far sì che il maggior numero di omosessuali celassero la loro identità che è diventata qualcosa che è stata percepita come una minaccia, che incute paura proprio perché non viene palesata al mondo esterno. Poi, con il passare degli anni, molti omosessuali hanno fatto outing dunque smesso di nascondersi e la gente ha cominciato a familiarizzare con loro; proprio in questo modo la situazione può migliorare, perché si conosce di più la tematica e si crea una conoscenza che favorisce la relazione.
La potenza del cinema consiste nel simulare questo contatto umano; non mostrando i gay necessariamente come degli eroi o come delle vittime, ma semplicemente come persone normali che vivono una vita serena nella società, e in questo senso il cinema può contribuire a scacciare la paura e favorire l’integrazione.

Con “Howl”, lei e Rob Epstein avete deciso di esplorare la San Francisco degli anni 50 e lo sviluppo della così detta Beat Generation: che significato e importanza culturale ha per lei questo movimento artistico?
San Francisco per qualche strana ragione è il luogo che sembra accogliere tutte le persone che non si sentono a proprio agio, e come tale ha alimentato tantissimi movimenti della contro-cultura americana, di cui i Beats (slang di Beat Generation, ndr) sono stati uno dei tanti; penso ad esempio al Free Speech Movement di Berkeley (Movimento per la Libertà di Parola), al movimento Hippie e al movimento Gay, infatti non a caso San Francisco è la città dove si sono formate le prime comunità omosessuali. La storia di Howl è stata da noi scelta perché abbiamo ritenuto potesse interessare ai giovani, proprio per questo aspetto: ovvero, tante delle idee che abbiamo assimilato e diamo per scontati, che sono appunto il femminismo, la liberalizzazione degli omosessuali e i diritti civili contro le minoranze etniche sono tutti concetti che sostanzialmente derivano da un movimento nato a metà degli anni 50 per volontà di un gruppo di poeti dissidenti; tu parlavi un attimo fa della forza del cinema, pensa quanto sia ancora più incredibile il fatto che siano stati dei poeti a generare un cambiamento così straordinario.


Che opinione ha in merito all’industria cinematografica americana? Quali sono a suo avviso le principali differenze – in positivo e negativo – rispetto, ad esempio, alla scena europea e asiatica?
È sempre esistita una Hollywood mainstream da cui deriva la cultura cinematografica dominante statunitense e in base alla prevalenza di Hollywood c’è uno spazio più o meno grande che viene lasciato alle voci indipendenti, che sono quelle che interessano a me. Sono molti i film americani che mi interessano, ma seguo anche quelli realizzati nel resto del mondo e trovo un elemento di connessione tra le varie scene; spesso si parla di new-wave ed è come se questa “nuova ondata” fosse in atto in posti diversi e continuasse a propagarsi in tutti i peasi del mondo simultaneamente. Per esempio, negli Stati Uniti c’è stato un importante periodo di novità negli anni 70 con un nuovo picco di creatività negli anni 90 che probabilmente hanno favorito l’affermarsi di scene come quelle di Taiwan o Messico. Credo che abbia a che vedere con la realtà politica di una determinata cultura in un determinato periodo storico; e naturalmente poi dipende anche dalla dimensione economica di questa cultura, perché fare film è un’attività che ha un costo elevato, quindi è certamente apprezzabile che ciò nonostante continuino a esistere cineasti indipendenti che hanno la possibilità di distribuire le loro pellicole e produrre anche un profitto da questi lavori.

Per terminare, facciamo una specie di gioco; potrebbe citarmi (senza necessariamente motivarne le scelte): tre pellicole imperdibili per chi intende approfondire il tema dell’omosessualità, tre film tra i suoi preferiti in assoluto, i tre libri della sua vita?
Film con tematiche omosessuali - [dopo diversi secondi di silenzio…] Ehm, ci sto pensando, non sono preparato! [gli suggerisco alcuni film che trovo rappresentativi del filone tra cui Brokeback Mountain di Ang Lee…]
Oh, Brokeback Mountain è davvero bellissimo! Ma sicuramente il mio Lo schermo velato lo trovo molto appropriato al caso; poi anche tutti i film di François Ozon, che trovo meravigliosi.
Sono un po’ in difficoltà perché i film che potrei consigliare a un eterosessuale che intende avvicinarsi a tematiche omosessuali non sono necessariamente i film che interesserebbero a me; quelli che interessano a me sono pellicole dove i protagonisti sono gay con problemi, che hanno difficoltà e che magari mostrano un aspetto degli omosessuali che non è idealmente quello più adatto a superare la paura (in riferimento all’omofobia citata precedentemente, ndr).
Film preferiti - La strada di Fellini, I quattrocento colpi di Truffaut, Il maschio e la femmina di Godard, Luci della città di Chaplin, Anatomia di un rapimento di Kurosawa; molti film di Kurosawa, molti film di Fellini, Kubrick, Scorsese, l’Hitchcock di metà carriera…di cui preferisco Notorious – L’amante perduta.
Libri della vita - I grandi classici come Moby Dick [ride], quelli di Henry James, Jane Austen, Lo straniero di Camus, The Berlin Stories di Christopher Isherwood, ehm…

C’è inceve qualche regista più recente di cui apprezza in modo particolare il lavoro?
È difficile per me risponderti; andrò sempre a vedere i film di Scorsese, François Ozon, Gus Van Sant, non necessariamente perché trovo i loro lavori eccezionali, ma perché sono degli artisti pieni di energia e di creatività dunque mi interessa sempre capire qual è il progetto successivo a cui lavorano e perché credo siano tra quelli in grado di espandere il linguaggio cinematografico. Mentre, nell’ultimo periodo, mi sono piaciuti i film più recenti di Gregg Araki e The Kids Are All Right di Lisa Cholodenko.

venerdì 18 giugno 2010

Le quattro volte di Michelangelo Frammartino

"Abbiamo in noi quattro vite distinte e
dobbiamo quindi conoscerci quattro volte
."
(Testimonianza di scuola pitagorica)

Uomo; animale; vegetale; minerale. Quattro entità che rappresentano il concept su cui ha lavorato Michelangelo Frammartino (milanese con cuore calabrese, classe 1968) per il suo 2° lungometraggio che narra di altrettante piccole storie emblematiche della vita in una Calabria fuori dal tempo.
La figura del vecchio pastore, nella sua dimessa e isolata quotidianità, che si tiene in vita assumendo una "magica" soluzione di acqua e pulviscolo raccolto in chiesa (frutto di una credenza pagana); la nascita di un capretto (commovente e al contempo poderosa la sequenza dell'espulsione dal ventre materno), i successivi istanti di esistenza, la crescita e la prima - ed ultima - uscita con il gregge; il solenne abete bianco testimone del silenzio e del tempo che scorre nella vegetazione montanara, fino a quando la popolazione locale lo abbatte per celebrare la Festa della Pita; finita la ricorrenza, l'albero giace al suolo e viene venduto ai carbonai che attraverso un'antica quanto incantata procedura artigianale (sapientemente filmata) trasformano i resti della pianta in un particolare carbone.
Possono 86 minuti di immagini senza dialoghi né colonna sonora risultare appassionanti? Be', certo che sì; a patto che ci si lasci rapire dalla forza e dall'incantesimo delle suggestive inquadrature e si entri attivamente nel microcosmo filmico pulsante di metafisica, spiritualità, antropologia e storia. Frammartino scava a fondo, sembra voler entrare negli esseri e nelle cose filmando le avventure di un minuscolo insetto tra le rughe profonde di un anziano e l'astrusità della polvere, dirigendo sorprendentemente gli animali come fossero attori e utilizzando efficacemente la potenza dei suoni naturali per connettere quattro storie che probabilmente parlano della stessa, identica anima.
Un film di un'intensità visiva rara, da assaporare per riconciliarsi con la vita e con quelle piccole cose che di essa - molto spesso - ci dimentichiamo. Vincitore del premio Europa Cinemas Label come miglior film europeo nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al Festival di Cannes 2010.

voto 7,5

martedì 15 giugno 2010

The Sims Machinima Film Festival


Anche in Italia è arrivata “The Sims Machinima Film Festival”, rassegna newyorkese di cortometraggi cinematografici realizzati con la grafica di alcuni videogame (il principale è appunto The Sims, ma esistono anche The Movies, IClone, Moviestorm e Garry’s Mod). Machinima – abbreviazione di machine cinema – permette a tutti di creare, con semplici strumenti, veri e propri film con attori, set, costumi, ambientazioni, musiche, ecc.
Mentre The Sims, giunto alla sua terza edizione, è un videogioco di simulazione della vita reale (nato nel febbraio del 2000, giunto quindi al 10° anniversario) che ha venduto la cifra incredibile di 120 milioni di copie e che vanta una community internazionale molto popolosa e attiva.
L’innovativa kermesse su questa bizzarra forma d’arte – che ha conquistato registi che fanno degli effetti speciali il loro punto di forza, come Steven Spielberg e Peter Jackson – si è svolta il 9 giugno al cinema Apollo di Milano, promossa da EA (Electronic Arts, colosso americano leader nell’ambito dei software interattivi d’intrattenimento) con il sostegno di Bocconi Trovato & Partners ed ha visto una giuria d’eccezione composta da alcuni tra i migliori addetti ai lavori (tra cui spiccava William Lessard, massimo esperto del fenomeno dei Machinima) valutare e premiare i migliori tre filmati di una selezione di dieci cortometraggi realizzati da giovani appassionati italiani.
Di indubbio fascino questa tecnica che specialmente negli USA è piuttosto diffusa in ambito musicale per generare hype (tra gli altri, utilizzata da Bono Vox, Rihanna, Depeche Mode, Lady Gaga, Madonna e Beyonce) e che possiamo ricordare in Italia per un impiego analogo nel videoclip di “Bruci la città” di Irene Grandi, ma che probabilmente nel nostro paese è guardata con scetticismo e perplessità da chi lavora nella produzione video classica.
I ragazzi in gara hanno provato a raccontare delle storie che parlavano d’amore in un paio di minuti con risultati a dire il vero non proprio tutti entusiasmanti: lo “sforzo creativo” e l’impegno non si discutono, ma la rappresentazione generale risentiva della giovane età dei protagonisti dunque della loro acerba padronanza tecnico-espressiva e degli evidenti limiti pratici di realizzazione per l’inevitabile (quanto formalmente scorretto) confronto con il cinema.
Il progetto “The Sims Machinima”, ambizioso e ammirevole, necessita proprio di iniziative come questa per diffondere il verbo, sdoganare e, ancor più, trasmettere un approccio oltre che creativo anche professionale e in qualche modo metodologico verso tutti coloro sono entusiasti per l’arte e le nuove tecnologie.
Insomma, un potenziale importante su cui c’è ancora tanto da lavorare.

domenica 13 giugno 2010

Tamara Drewe di Stephen Frears

Tra drammi introspettivi e pellicole imperniate su ritmi blandi, ecco spuntare il divertissement di Cannes 2010: Tamara Drewe, tratto da un fumetto di Posy Simmonds a sua volta ispirato al romanzo Via dalla pazza folla di Thomas Hardy. Tamara (Gemma Arterton) ritorna nella propria casa natale nella sperduta campagna inglese del Dorset che aveva abbandonato poco più che adolescente alla volta di Londra. Non è più "Beaky", il brutto anatroccolo di un tempo: ha un naso nuovo, scrive per l'Indipendent e sfodera un fascino femminile maturo che fulmina il sexy contadino tuttofare Andy (Luke Evans) e il viscido autore di bestseller Nicholas Hardiment (Roger Allam). "Tam", però, conosce casualmente un famoso batterista rock (Dominic Cooper) e se ne invaghisce; intanto a casa Hardiment - una specie di centro di raccoglimento per scrittori - l'atmosfera è vivace tra gli ospiti, anche per via del adultero Nicholas che ferisce l'ingenua e amorevole moglie Beth (Tamsin Greig).
A destabilizzare definitivamente l'ambiente bucolico ci pensano due teenager indiavolate - Jody e Casey - che generano misunderstanding su Internet e innescano sviluppi drammatici.
Frears disegna in modo impeccabile i personaggi e trasforma (insieme alla sceneggiatrice Moira Buffini) la graphic novel originale in un racconto spassoso, ritmato e un po' folle, offrendo anche uno sguardo disincantato sulla società britannica e rileggendo in chiave attuale le opere di Hardy.
I dialoghi sfavillanti fanno dimenticare l'ultimo quarto d'ora che, forse, risulta eccessivamente concitato e quella sequenza - troppo buona - conclusiva che stride leggermente con la trama "nera" fin lì, abilmente tracciata. Ciò nonostante, Tamara Drewe rimane una commedia di buonissimo livello, da utilizzare come talismano contro il cattivo umore.

voto 7

venerdì 11 giugno 2010

Lo zio Boonmee che si ricorda delle sue vite precedenti di Apichatpong Weerasethakul

Le espressioni "autore indigesto" e "un film non per tutti" sembrano coniate appositamente per il cinema del quarantenne Apichatpong Weerasethakul (che qualcuno ha saggiamente ribattezzato solo come "Joe"), regista, sceneggiatore e produttore thailandese di Bangkok fresco vincitore della prestigiosa Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes.
Questo artista, che alcuni addetti ai lavori definirono "scienziato cinematografico pazzo" all'epoca delle sue prime apparizioni europee, è nel bene e nel male unico nel suo genere. Già: di che genere stiamo parlando? Ad esempio, il suo ultimo, palmato Uncle Boonmee Who Can Recall His Past Lives annunciato come "commedia fantastica" rappresenta quasi un'esperienza mistica, tra lo sperimentale e il documentario. Inclassificabile e fuori da ogni convenzione filmica.
È la storia di zio Boonmee, malato terminale che decide di andare a trascorrere i suoi ultimi giorni nella quiete della casa di campagna; una realtà illusoria cede il passo improvvisamente alla fantasia poiché si materializzano il fantasma di sua moglie e il figlio scomparso diventato uno scimmione dagli occhi rossi fluorescenti.

Un viaggio in un mondo misterioso e surreale alla ricerca di una verità ultraterrena, tra parabole di vita nascoste, scene potenti e discutibili (il rapporto sessuale tra il pesce gatto e la principessa!) e una visione panteistica che appare ineluttabile.

Una pellicola a dir poco complessa e ambiziosa, che per svelare la propria vera essenza necessita di più proiezioni e riflessioni profonde. Troppo certamente per lo spettatore dallo sguardo disimpegnato, ma anche per il cinefilo incallito.

voto 6

mercoledì 9 giugno 2010

The Hole in 3D di Joe Dante

Un 3D da paura. Sgombriamo il campo da qualsivoglia equivoco: da paura nel senso che la moderna tecnologia tridimensionale utilizzata in questo horror(e) è indubbiamente irrilevante ai fini dell'efficacia visiva, dunque spaventosamente inutile per lo spettatore.
Dane e Lucas - da poco trasferiti in una nuova, piccola città della provincia americana - trovano nel loro scantinato una botola accuratamente sigillata; decidono di aprire i molteplici lucchetti che celano un segreto e scatenano le "forze del male".
Con la vicina Julie si dovranno difendere dalle tenebrose presenze che ne minacciano l'incolumità e individuare quale sia la causa del buco-mistero.
Le intenzioni - dichiarate da Joe Dante - di esplorare le paure latenti dell'animo umano rappresentano uno spunto senz'altro interessante, peccato, però, che la messa in scena e il pathos siano modesti; a parte alcune apprezzabili sequenze (la stanza con le lampadine che esplodono, la costruzione degli ambienti digitali nella scena onirica finale), il resto è una rassegna di stereotipi del genere: bambole assassine, porte che si chiudono solennemente, effetti sonori che cercano didascalicamente il brivido, ecc.
Davvero troppo ordinario e scontato per un horror "con gli occhialini".

voto 4,5

sabato 5 giugno 2010

Il segreto dei suoi occhi di Juan José Campanella

L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi. Marcel Proust


Non serve eluderlo, lasciarselo alle spalle o cercare di nasconderlo; il passato si ripresenta bussando alla porta della nostra coscienza ed esige delle risposte. A volte, i segreti più oscuri – o, più semplicemente, uno stato d’animo dissimulato – possono essere rivelati dalla spontaneità di uno sguardo. Che siano le pupille di un feroce assassino o di un uomo innamorato, poco importa a Juan José Campanella, regista di Buenos Aires a metà tra cinema e televisione (suoi anche alcuni episodi di Dr. House e Law & Order), che ha realizzato lo scorso anno Il segreto dei suoi occhi, con il quale agli ultimi Oscar ha riscosso l’ambita statuetta per il miglior film straniero, scalzando, tra le altre, due pellicole di notevole fattura come Il Profeta e Il nastro bianco.

Dopo un poetico incipit-flashforward, appare Benjamìn Espόsito (Ricardo Darìn) in veste di scrittore in pensione, mentre cerca di raccogliere le idee per visualizzare mentalmente e mettere nero su bianco un fatto cruento avvenuto venticinque anni prima (il 21 giugno 1974, in una Argentina peronista dal clima assai teso, ndr) legato ai suoi trascorsi lavorativi presso il tribunale penale; con un flashback ci vengono mostrati i frammenti delle ultime ore di vita di una ragazza vittima di uno stupro-omicidio: la scena del crimine che scorgiamo pizzica lo stomaco e lascia presagire uno sviluppo caratterizzato da atmosfere tragiche e dolorose. Sensazione del tutto errata.

Non che il film trascuri la parte inquisitoria connessa allo spregevole delitto, ma si può dire che usa questo espediente narrativo per raccontare il sentimento di Benjamìn nei confronti di Irene Menéndez Hastings (Soledad Villamil), il suo altolocato superiore nel periodo di attività al tribunale.

Nella rappresentazione (scomposta in due parti: flashback correlati alle circostanze criminose e il presente a ridosso del Duemila), il malinconico Espόsito apre la scatola dei ricordi passando al setaccio il caso della violenza carnale della giovane Liliana e rivive le dense giornate di quegli anni 70, quando con l’aiutante-amico-alcolista Pablo Sandoval (Guillermo Francella) dava la caccia all’assassino e venerava – sottovoce – con lo sguardo l’elegante Irene.

Fuorviante, dicevamo, potrebbe essere la storia noir di fondo perché l’esposizione si dipana scandita da una spiccata ironia e a una buona dose di sarcasmo che rendono la parte centrale – stranamente, visto il tema di partenza – piuttosto divertente.

Gli eventi si susseguono: Isidoro Gòmez (Javier Godino), il sospetto stupratore, viene fermato nel corso di un epico piano sequenza (probabilmente “solo” una long take?) allo stadio del Club Atlético Hurácan e condannato all’ergastolo dopo un decisivo (e intenso) interrogatorio culminato in una cruda ammissione di colpa; però, per mano di un vecchio collega astioso verso Benjamìn, il reo confesso viene reclutato come collaboratore di giustizia e quindi scarcerato. La rabbia e la frustrazione sono grandi, e lo sono ancor di più quelle che assalgono Riccardo Morales (Pablo Rago), marito della vittima divenuto ossessionato all’idea di assicurare alla “giustizia” colui che gli ha portato via per sempre l’amata Liliana e a cui il paradossale sistema giudiziario consente anche il benefit di terrorizzare gli inquirenti.

Il flusso dei ricordi si assopisce, il romanzo e la vita di Espόsito hanno dei buchi che vanno colmati e il finale è tutto da riscrivere. L’uomo si scuote dal torpore della consuetudine e riconquista le proprie facoltà, decidendo finalmente di spalancare gli occhi e leggere la verità.

Campanella dirige un cast convincente e gira con piglio creativo costruendo sequenza dopo sequenza una pellicola dal meccanismo seducente e vi conferisce un marchio stilistico personale, al quale contribuiscono il peculiare uso delle angolazioni, i minuziosi primissimi piani, le inquadrature soventemente decentrate e l’utilizzo icastico della soggettiva. La macchina da presa del regista scruta, ascolta, spia, medita. È uno sguardo concentrato sull’amore, sulla vendetta, sulla giustizia, sulla (metafora) politica, sull’amicizia; l’equivalente degli occhi dello spettatore che – contrariamente a quelli del film – non hanno segreti e brillano naturalmente alla visione di una delle migliori uscite della stagione.


voto 8

Il padre dei miei figli di Mia Hansen-Løve

Coordinate: Francia, Parigi; Mia Hansen-Løve (regista-sceneggiatrice); un produttore cinematografico; un telefono cellulare; la famiglia; un fallimento professionale; la dignità; i ricordi; Robert Bresson; Yasujiro Ozu. Aggiungete un paio di ingredienti spoiler e mischiate: arriva nelle sale italiane "Il padre dei miei figli", pellicola vincitrice del premio speciale della giuria "Un Certain Regard" al Festival di Cannes 2009 e osannato dalla quasi totalità della critica internazionale.
La firma è, appunto, della precoce (classe 1981) Mia Hansen-Løve, già attrice per Olivier Assayas ed ex recensore per la prestigiosa rivista Cahiers du cinéma, che si ispira apertamente al personaggio del produttore francese Humbert Balsan e mette in scena una storia drammatica e delicata sulla vita.
Grégoire Canvel (un ottimo Louis-Do de Lencquesaing) ama il cinema e con la sua Moon Films finanzia le produzioni d’essai; è un uomo elegante e sempre di corsa che trascorre le sue giornate risolvendo grane al cellulare e non ha tempo neanche di rispettare le più comuni norme del codice stradale. Gli scorci di quotidianità che gli restano li passa con sua moglie Sylvia (Chiara Caselli) e con le figlie; con loro si mostra affabile e si gode qualche scampolo di felicità, come ci viene mostrato nella scena domestica, quando le figliolette Valentine e Billie improvvisano una deliziosa gag che culmina con le "sculacciate" del papà: una delle sequenze di racconto famigliare più emozionanti e intense degli ultimi anni.
Quella di Grégoire, però, è solo una maschera indossata per nascondere le preoccupazioni legate ai problemi finanziari che, quasi sottovoce e in un’aura di lieve mistero, vanno via via palesandosi; prima di scoprire definitivamente le carte, Hansen-Løve ci mostra la bella sequenza del viaggio in Italia, durante la quale si rende probabilmente omaggio – narrando di templari e rovine – a "Lancillotto e Ginevra" di Bresson, nel quale recitò Balsan e la cui locandina campeggia con vanto nell’ufficio del produttore.
Al rientro dalle vacanze, i colori luminosi della gioia e della contentezza sbiadiscono; Grégoire è sempre più sommerso dai debiti e per la Moon Films si paventa una ingloriosa chiusura. Come gestirà l’emergenza il produttore? Accetterà il sostegno economico dei parenti? Purtroppo non avremo nessuna risposta perché l’uomo – con sorpresa, a meno di metà film – esce di scena (una soluzione, quella della regista, di grande coraggio e apprezzabile originalità narrativa).
Ne prendono il testimone le figlie e quella moglie che, a leggere il titolo, dovrebbe fornire il suo punto di vista di madre alla storia.
Invece a emergere è la primogenita Clémence (Alice de Lencquesaing), brava, ma il cui sviluppo del personaggio appesantisce il racconto e sposta il baricentro emotivo del film con l’introduzione di altri temi tutto sommato trascurabilissimi. Sylvia intanto prende le redini della società battendosi per evitare la sempre più probabile liquidazione e si occupa con orgoglio della prole: anche queste fasi, seppur notevoli per intensità, risentono di alcune lungaggini.
La regista però, va evidenziato, è perfettamente a suo agio con la macchina da presa: riprende gli attori ottenendo un risultato eccelso in termini di spontaneità e armonia del cast, filma Parigi con una luce sobria e autentica, caratterizza il suo stile utilizzando – senza eccederne – la chiave simbolica (la scala oltre il muro, il black-out a tavola) e arricchisce la rappresentazione con sfumature psicologiche che richiamano l'impronta "spirituale" del regista giapponese Ozu.
In definitiva, il film parte forte, sfiora il cuore e fa riflettere, sembra davvero possa evolversi come il capolavoro annunciato, ma poi dà come l’impressione di accartocciarsi su sé stesso, trasferendo una sensazione strana, come di parziale incompiutezza.
Il finale è intriso di malinconia: un condensato di ricordi, dolore, rimorsi; ma sulle note amabili di "Que sera sera" di Doris Day apre alla speranza e ci suggerisce che, dopo tutto, c’est la vie.


voto 6,5

Manolete - Fra mito e passione di Menno Meyjes

Manuel Rodrìguez Sànchez, meglio conosciuto come “Manolete”, è stato un celebre torero spagnolo degli anni 40, famoso anche per aver perso la vita a soli trent’anni successivamente a una cornata ricevuta durante uno di quegli spettacoli popolari che corrispondono al nome di Corrida, che alcuni definiscono barbarie mentre secondo altri sarebbero una forma d’arte, come sosteneva pure Hemingway che nel suo “Morte nel pomeriggio” descriveva l’uccisione del toro come una rappresentazione del sublime.

La parabola di un matador che infiammava le folle? Un’analisi sul senso della vita e della morte? Un racconto ad effetto sul tradizionale rito ispanico? Niente di tutto questo, purtroppo; ma, come ci tiene a precisare il regista Menno Meyjes (sceneggiatore di “Indiana Jones e l’ultima crociata”e “Il colore viola”), il suo terzo film “è una storia d’amore”.

La pellicola – distribuita in Italia oggi, ma realizzata nel 2007 – è incentrata sulla passionale relazione tra il malinconico e timido Manolete (interpretato da un Adrien Brody dalla somiglianza quasi inquietante con il vero torero) e la bella e maledetta Lupe Sino (Penelope Cruz); l’inizio dei suoi guai. Il virile matador è una solida icona ai tempi della disastrata Spagna neo-franchista ma si scioglie come neve al sole quando incontra l’affascinante donna. Un comportamento che crea stupore e imbarazzo nell’ambiente delle arene, che giudica inappropriato il sentimentalismo e l’asservimento nei confronti di Lupe; a quanto pare, solo un’opportunista che approfitta del denaro e delle conoscenze influenti del suo amante.

Il meccanismo narrativo della vicenda è costruito su un – per niente convincente – racconto diviso in due piani temporali: da una parte i bei ricordi amorosi di Manolete e dall’altra i suoi ultimi giorni di vita, fino al tragico 28 agosto 1947 nella Plaza de Toros di Linares. Un alternarsi di brevi scene senz’anima e prive di un opportuno approfondimento psicologico che chiarisca le dinamiche interiori dei personaggi, con l’aggravante di alcuni momenti così illogici da sfiorare il grottesco, come quando Lupe, in tribuna per una corrida, chiacchiera e amoreggia spensierata con un corteggiatore guardando negli occhi il gelosissimo compagno, impegnato in quel frangente a giocarsi la vita contro un possente animale da cinquecento chili.

Meyjes, tuttavia, si difende con la macchina da presa e dirige discretamente, pur con qualche eccesso didascalico come il montaggio alternato nella parte finale della donna che cerca di raggiungere in tempo l’arena dove si sta esibendo El Monstruo (così veniva anche soprannominato Manolete).

Se volessimo infierire, potremmo anche citare la modesta colonna sonora e puntare il dito sull’infelice decisione di girare le scene (nella pellicola originale, quella da noi visionata) in inglese invece di utilizzare naturalmente lo spagnolo, così da enfatizzare e trasmettere allo spettatore quella carica di energia ed esaltazione propria della corrida de toros.

Buoni, invece, la fotografia di Robert Yeoman (direttore di fiducia di Wes Anderson) e i costumi di Sonia Grande (“Mare Dentro”, “Parla con lei”). L’elevato valore artistico della coppia di attori protagonisti è fuor di dubbio, ma anche per questo si poteva, anzi doveva, fare di più.

“Manolete”, fra mito e passione, c’è solo la noia.


Voto: 4